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 2015  giugno 17 Mercoledì calendario

RAHM EMANUEL


Chicago è una città complicata. Per la criminalità, per la corruzione, per l’apatia, per quella sensazione di essere sbagliata che non si toglie dagli anni trenta del Novecento. Gode, quasi, del suo lato noir, alimentato dalla letteratura, dalla fiction, dai media in genere. Chicago è però una città nel senso più autentico del termine. Luogo e comunità che non si sovrappone ad altro: né a uno Stato, né a un Paese. E non è un dettaglio se la più importante conferenza annuale sul futuro delle città mondiali si faccia proprio lì. Lì, dove, oggi comanda un uomo discusso e per certi versi discutibile che è personaggio da sempre, qualsiasi cosa faccia. È Rahm Emanuel, 55 anni, dal maggio 2011 sindaco della terza metropoli più grande degli Stati Uniti. Rieletto solo da pochi mesi, mentre a molti pareva che potesse avere ambizioni presidenziali. Fino al giorno in cui decise di correre per la city hall di Chicago era il capo dello staff della Casa Bianca, ovvero il consigliere principale di Barack Obama. «Voglio solo fare il primo cittadino di questa città», disse però in quei giorni e ripete spesso da allora. Nessuno gli credeva allora e nessuno gli crede oggi, perché è ambizioso e spietato. Perché è bravo. Il Financial Times, qualche tempo fa gli dedicò un ritratto monumentale nelle dimensioni e interessante nei contenuti: «Rham Emanuel: mayor of America», il titolo. Nell’articolo il sindaco di Chicago viene descritto come un uomo con una ferociously ambitius, un’espressione che in italiano suonerebbe come «ambizione smisurata». «Non sarò un sindaco paziente», ha detto lui in quel ritratto: ex capo dei democratici alla Camera dei Rappresentanti, ex consigliere di Clinton, in passato è stato volontario con le Forze di Difesa Israeliane nella Guerra del Golfo del 1991 (suo padre emigrò da Israele negli anni ‘50). Il primo sindaco con origini ebree di Chicago dice di non voler diventare il prossimo presidente degli Stati Uniti. Secondo il Financial Times lo stile del sindaco americano «si sposa» benissimo con lo spirito dell’età contemporanea. Tra le ambizioni descritte, la volontà di attirare un maggior numero di imprese in città, di ridurre la criminalità nelle scuole e per la strada e di attivare diversi programmi di filantropia. Lo stesso ex sindaco Bloomberg a New York ha dimostrato che la democrazia filantropica può compiere gesta impressionanti, attirando grandi investimenti, capaci di ricostruire interi quartieri fatiscenti e aprire nuove scuole. A queste ambizioni, si aggiunge quella dettata dall’abilità finanziaria da record dell’ex capo-gabinetto alla Casa Bianca. Prima di essere assunto da Obama, il quale non ha mai nascosto la sua riluttanza ad affidargli incarichi legati ai finanziamenti, Emanuel diceva che voleva essere il primo portavoce ebreo americano. Oggi è il primo sindaco ebreo di Chicago. Se ci riesce, soprattutto mettendo a posto le finanze disastrate della città, il denaro non sarà il suo problema. «Non ho mai sentito Rahm dire che vuole diventare presidente degli Stati Uniti», dicono i suoi consiglieri. «Io sono fatto per fare questo lavoro», afferma Emanuel da sindaco, quando il giornalista gli chiede se vuole diventare il primo presidente ebreo alla Casa Bianca. «Ho già realizzato l’ambizione della mia vita», aggiunge.
Vero o meno che sia, va valutato per quello che sta facendo. Chicago è migliorata, lo dicono gli indicatori statistici: meno omicidi, meno crimini in genere, disoccupazione in diminuzione, progetti urbanistici nuovi. Resta una metropoli complicata, ma per molti versi funziona. Ma è merito suo o no? La domanda ha una risposta aperta e molto dipende dal carattere controverso di Emanuel, che piace, ma soprattutto non piace. Qualche tempo fa, sul Foglio, Federico Sarica ricordava che la sua amministrazione fosse abbastanza incolore: l’elettorato non lo ama, la stampa locale ancora di meno («Facciamo un favore a Chicago, non lasciamo che Rahm diventi sindaco», fu il titolo dell’editoriale del Chicago Tribune la domenica prima dell’elezione che l’ha visto riconfermarsi alla City Hall. Il mondo liberal Usa non è particolarmente attratto da Emanuel, la cui capacità principale è l’abilità nella raccolta fondi: ha reso ricche le campagne elettorali dei candidati per i quali ha lavorato e anche la sua. Nell’ultimo giro, quello di quest’anno, secondo il Tribune, ha raccolto 15 milioni di dollari di cui sette sono andati in spot televisivi: più di centocinquanta ore di spazio sulle televisioni locali. Di questa sua capacità ha scritto di recente David Axelrod, consigliere politico di Obama e stratega della campagna che portò Barack alla Casa Bianca nel 2008. Nel suo libro Bieliver, Axelrod parla di Emanuel e anche di Chicago, una città dove la poca alternanza politica dagli anni 50 in poi si è giocata all’interno del Partito democratico e dove Richard Joseph Daley e suo figlio Richard M. Daley hanno regnato la bellezza di 43 anni su 56 complessivi dal 1955 al 2011. Una città e la sua storia politica che sono stati una palestra di consenso, un luogo dove le battaglie locali hanno incontrato la storia (il record del primo sindaco afroamericano, Harold Washington, ad esempio).
In Believer c’è tutto questo, in un equilibrio scientifico fra ideali e racconto della macchina politica. In un passaggio del libro Axelrod scrive che Emanuel, alla Casa Bianca, urlò allo stratega e autore del libro che governare un Paese e fare una campagna elettorale sono due cose differenti. A Chicago non è stato esattamente così negli ultimi anni. Ma la città è tornata sulla bocca di molti. E questo è un indiscutibile successo.