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 2015  giugno 01 Lunedì calendario

FOOD – LA CUCINA DEL DIAVOLO

Maglie autografate, manifesti di partite importanti, articoli di giornale. Spicca quello di France Football – bibbia del calcio – dedicato a “la toque voyageuse du Ac Milan”. E poi un mare di foto dove Oscar Basini – il cuoco viaggiatore – è insieme a chi ha scritto quasi un lustro in rossonero. Van Basten e Kaká, Papin e Ibrahimovic, Sacchi e Allegri. C’è l’album, personale e del Milan berlusconiano, sulle pareti della Locanda del Colle, il suo covo a Tabiano Castello, sulle colline sopra Salsomaggiore Terme, in un borgo medievale e silenzioso dove il tempo si è fermato.
L’album si è interrotto qualche mese fa, senza comunicazione. Basini e il suo collega Michele Persichini – che resta lo chef personale di Silvio Berlusconi – non sono più i cuochi da trasferta della squadra più titolata al mondo. «Ma non sono arrabbiato, non riuscirà a farmi parlare male del Milan», racconta, «grazie a chi mi ha voluto, ho visto il mondo. Più che altro è la mancanza di un saluto, di un messaggio: bene o male, sono stato con loro 25 anni». In effetti, è una storia lunga, intensa, quella del cuoco parmense. Basta sedersi sotto il pergolato del suo locale – semplice ma suggestivo – e aprire un grande Lambrusco come il “Marcello” di Ariola perché gli aneddoti scorrano più fluidi uno dopo l’altro. Ora felici, ora nostalgici.
«Era il ’90 quando Pincolini, il preparatore prediletto di Sacchi, mi chiese se potevo seguire la squadra in Belgio, visto che Persichini era malato. Avevo qualche timore, non ero certo di essere in grado di cucinare per una squadra intera ma mio padre mi disse “vai tranquillo”. Così iniziai la mia avventura con la trasferta di Bruges, uno a zero con gol di Carbone e la gomitata di Van Basten a quel Bosman che sarebbe diventato famoso per la legge. Un’esperienza fantastica. Così quando tre mesi dopo, Vincenzo mi chiese se volevo seguirli in Giappone per la Coppa Intercontinentale mi tornarono i dubbi: erano nove giorni lontani da casa. Ma anche qui la famiglia mi diede fiducia e partii per Tokyo. Sempre in punta di piedi, come è mia abitudine». Da Bruges 1990 a Madrid 2014, un’ottantina di trasferte per il mondo. «Un bel numero ma ogni volta era come se fosse la prima. Lo so che qualcuno penserà sia un luogo comune ma il Milan era veramente una famiglia: mai sentito un dipendente».
Storie di cucina e di cene da leggenda. Da quella volta che decise di fare mille tortelli nell’hotel di Tokyo («Ero terrorizzato: pensavo che ci avrei messo un mattina, invece sono arrivati ad aiutarmi quindici cuochi dell’hotel che volevano imparare e in venti minuti ho finito!») ai trionfi. «Atene 2007 dopo la Champions League conquistata grazie alla doppietta di Inzaghi: apparecchiato per 440 persone, servito per 1.100. Il dottor Galliani dice giustamente che quando si vince, bisogna dare da mangiare a tutti quanti vengono a festeggiare. Abbiamo finito di cucinare alle cinque del mattino per poi finire buttati in piscina dai giocatori. Ma giuro che non eravamo stanchi, troppa adrenalina positiva. Ma a dire il vero, forse è stata ancora più emozionante la cena dopo Manchester 2003, visto che avevamo rischiato di morire d’infarto per i rigori. Poi, ero troppo felice per il mio amico Ancelotti. Anche lì da 200 invitati siamo arrivati a 500 persone». Già, Carletto, gli occhi brillano come improvvisamente. «Lui è del ’59, io tre anni più vecchio. Me lo ricordo poco più che ventenne seduto a questi tavoli, quando giocava nel Parma. È sempre stato un rapporto di vera amicizia, parlando quasi mai di calcio. Così nel ritrovarci al Milan è stato fantastico: ero al suo fianco nei viaggi in pullman e mi sembrava un sogno».
Poteva raggiungerlo in Spagna, no? «Ho l’osteria qui da seguire, quando ci vediamo comunque riesco sempre a dargli qualche prodotto buono: è successo anche nella mia ultima trasferta internazionale, nel 2014 a Madrid». Anche se è stato nello scorso settembre che Basini ha capito che la musica era cambiata. «Già nella stagione scorsa, quando Seedorf era in panchina, si vedeva che la vecchia famiglia non c’era più. Allegri che secondo me era bravo, era riuscito ancora a gestire il vuoto lasciato dai vecchi. Quelli erano in grado di insegnare tutte le regole ai nuovi, che fossero il ragazzino italiano o lo straniero di grido. Comunque, alla seconda di campionato, proprio contro il Parma non mi hanno chiamato e nel momento in cui Michele mi ha detto che era rimasto a casa pure lui, ho capito. Niente da dire, però manco una spiegazione». Forse fa parte dello spoil-system dove tutto ciò che arriva dal passato è da cambiare, o da eliminare proprio. «L’ho pensato anche io ma ripeto, la mia storia con il Milan è da 9 in pagella e quindi amen. In verità, mi spiace di più per i ragazzi che mi scrivono quanto gli mancano la mia cucina e la mia passione».