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 2015  giugno 16 Martedì calendario

LO SPETTATORE INDIFFERENTE

«Le guerre sono grandi gio­chi. Ragaz­zotti viziati spo­stano sol­da­tini di piombo su vario­pinte carte geo­gra­fi­che. Vi inse­ri­scono il rica­vato. Poi vanno a dor­mire. Le mappe volano nei cieli come aero­plani di carta, si posano sulle città, sui campi, sui monti e sui fiumi. Coprono la gente, ridotta a un ammasso di figu­rine che più tardi grandi stra­te­ghi smi­ste­ranno altrove, dislo­che­ranno di qua e di là, insieme alle loro case e ai loro stu­pidi sogni. Le carte geo­gra­fi­che di dis­so­luti con­dot­tieri rico­prono quello che è stato, sot­ter­rano il pas­sato. Quando il gioco fini­sce i guer­rieri ripo­sano. È a quel punto che arri­vano gli sto­rici, a tra­sfor­mare i gio­chi cru­deli di chi non è mai sazio in men­zo­gne alla moda. Viene dun­que scritta una nuova Sto­ria, la quale sarà anno­data da nuovi con­dot­tieri su nuove carte, per­ché il gioco non abbia mai fine».
«Romanzo-mondo» che defi­ni­sce un’intera mappa dell’esistenza seguendo le cica­trici che le tra­ge­die del Nove­cento hanno impresso sulla sto­ria euro­pea, Trie­ste (Bom­piani, pp. 444, euro 19), della scrit­trice e intel­let­tuale croata Daša Drn­dic, è prima di tutto un libro con­tro l’indifferenza. E que­sto per­ché, mesco­lando tra loro numeri, dati, elen­chi di nomi, forme poe­ti­che, sogni, esplo­sioni emo­tive, descrive, osser­vato da quella che è stata per secoli la terra di con­fine com­presa tra Gori­zia e Trie­ste, il con­te­sto nel quale, nel cuore stesso della cul­tura occi­den­tale, fu dap­prima pos­si­bile l’ascesa al potere di fasci­sti e nazi­sti e quindi la costru­zione dei campi di ster­mi­nio, l’Olocausto e il mas­sa­cro di altri milioni di russi, polac­chi, zin­gari, diversi e oppo­si­tori di ogni tipo. Miti nazio­nali, iden­tità, guerre si sedi­men­tano per secoli fino a ren­dere pos­si­bile il trionfo scien­ti­fico della mac­china di morte nazista.

La sto­ria, le molte sto­rie che attra­ver­sano il libro escono una dopo l’altra dalla cesta rossa in cui fruga oggi Haya Tede­schi, una donna ormai pros­sima alla fine della sua vita che, nata in una fami­glia ebrea che si era con­ver­tita al cat­to­li­ce­simo e aveva in parte abbrac­ciato il fasci­smo, aveva avuto un figlio da un uffi­ciale delle SS di stanza alla Risiera di San Sabba a Trie­ste. Haya ha tra­scorso la sua intera esi­stenza senza mai pren­der parte, come una tra­gica spet­ta­trice di avve­ni­menti che l’hanno lam­bita senza mai toc­carla fino in fondo. Solo il ten­ta­tivo di ritro­vare quel bam­bino che le era stato sot­tratto poco prima della fine della guerra per­ché desti­nato al pro­getto nazi­sta del leben­sborn, atto a sele­zio­nare una nuova gene­ra­zione di pic­coli «ariani», la met­terà almeno in parte di fronte alla realtà: non si era mostrata solo indif­fe­rente nei con­fronti delle vit­time di allora, ma aveva amato l’ufficiale Kurt Franz — per­so­nag­gio real­mente esi­stito — senza chie­dersi chi fosse vera­mente quel tede­sco alto e biondo e che solo mezzo secolo più tardi sco­prirà essere stato tra i peg­giori aguz­zini attivi nella ex fab­brica trie­stina tra­sfor­mata in campo di sterminio.

DASA DRNDIC

Chiu­dendo gli occhi di fronte alla realtà, Haya è soprav­vis­suta. Non ha seguito invece la stessa sorte quell’universo di con­fine in cui è nata, dove ogni cosa veniva decli­nata in decine di lin­gue — l’italiano, lo slo­veno, il tede­sco, l’ungherese, l’ebraico… -, a com­porre un’identità cosmo­po­lita di cui Trie­ste è stata a lungo l’epicentro e il sim­bolo stesso. La resa della città all’indifferenza, la fine della cul­tura evo­cata dalle poe­sie di Umberto Saba, segnano una strada senza ritorno, un oriz­zonte senza pos­si­bi­lità alcuna di reden­zione: un mondo scom­parso di cui resta solo una foto ingial­lita e sot­tratta all’incendio del Vec­chio con­ti­nente. Per­ché, come scrive Drn­dic, «il Con­fine è la terra dei fan­ta­smi che ulu­lano alla ricerca di una pro­pria corporeità».

La pro­ta­go­ni­sta del romanzo, Haya Tede­schi, e la sua fami­glia non pren­dono posi­zione di fronte all’orrore che cre­sce intorno a loro, cer­cano di vivere tran­quil­la­mente nono­stante tutto. Oggi come allora, ad esem­pio nei con­fronti della man­cata acco­glienza dei migranti da parte dell’Europa, quanto pesa l’inerzia di quelli che lei defi­ni­sce nel testo, in inglese, come «bystan­der» (spet­ta­tori)?
Trie­ste non è solo un romanzo sull’Olocausto e la rifles­sione sui bystan­ders è uno dei temi prin­ci­pali che stanno alla base del libro: ritengo sia qual­cosa che ci riguarda sem­pre. Ho cer­cato di met­tere in evi­denza come tutto ciò abbia a che fare con quanto accade intorno a noi anche al giorno d’oggi, e di mostrare come siamo fon­da­men­tal­mente indif­fe­renti a tutto quello che non ci riguarda diret­ta­mente o ci minac­cia in prima per­sona. La prima idea per il libro mi era venuta dopo aver letto un pam­phlet, tro­vato in rete, che rac­con­tava la sto­ria di una fami­glia ebrea che si era con­ver­tita al cat­to­li­ce­simo negli anni Trenta e di cui alcuni mem­bri si erano iscritti al Par­tito fasci­sta ed ave­vano lavo­rato per l’amministrazione tede­sca dopo il 1943. Di con­se­guenza que­sta fami­glia non aveva dav­vero pro­vato gli orrori della guerra sulla pro­pria pelle, aveva tro­vato un modo per sal­varsi. In quel pam­phlet non c’era alcun rife­ri­mento a ciò che era acca­duto alle vit­time di fasci­sti e nazi­sti, ai vicini e agli amici di que­sta fami­glia, gente che stava pas­sando sotto le loro fine­stre nei vagoni da bestiame verso i campi di con­cen­tra­mento, o che veniva impri­giona a San Sabba. Non solo non c’era quasi alcuna com­pas­sione per l’altro, non c’era nem­meno coscienza dell’altro. Dun­que ho comin­ciato a costruire la mia sto­ria par­tendo da questo.

Nel suo libro com­pa­iono, uno per uno, i nomi dei circa nove­mila ebrei depor­tati dall’Italia o uccisi nei ter­ri­tori occu­pati dagli ita­liani tra il 1943 e il 1945. Una sorta di tra­gico «memo­riale» per un paese come il nostro che non ha mai cono­sciuto una pro­pria Norim­berga e che per­ciò ha a lungo sot­to­va­lu­tato il pro­prio ruolo nell’Olocausto?
Se lo dice lei, va bene. In realtà, non è stata solo l’Italia a non essere dispo­sta ad affron­tare gli eventi più oscuri del pro­prio pas­sato, si tratta di una ten­denza che ha riguar­dato anche molti altri paesi. Col tempo, la Ger­ma­nia è forse quello che si è spinto più in là nel ten­ta­tivo di fare piena luce sul pro­prio far­dello rela­tivo alla Seconda Guerra Mon­diale. Al con­tra­rio, l’Austria ha mostrato rilut­tanza, e per molto tempo, a fare un passo netto in que­sta dire­zione: come è stato ed è ancora oggi per la Croa­zia. Si tratta di un affare peri­co­loso, soprat­tutto per­ché que­sta indi­spo­ni­bi­lità ad affron­tare il pas­sato con­tri­bui­sce ad ali­men­tare il revi­sio­ni­smo sto­rico che, spe­cie in tempi di crisi, rischia di fun­zio­nare come un fan­ta­sma lasciato nella bot­ti­glia che sul più bello tira fuori qua­lun­que cosa.

Il «leben­sborn», il vasto pro­getto messo in atto dai nazi­sti per creare una gene­ra­zione di bam­bini sele­zio­nati raz­zial­mente, è per molti versi al cen­tro del romanzo: il piano del Terzo Reich per la con­qui­sta del mondo pas­sava innan­zi­tutto per il con­trollo del corpo delle donne? Qual­cosa che sem­bra ritor­nare con l’orizzonte tota­li­ta­rio incar­nato da feno­meni come l’Isis?
Affron­tando il tema del pro­getto Leben­sborn che era stato ela­bo­rato dai nazi­sti, ho cer­cato in realtà di riflet­tere sul tema dell’identità che oggi si fa sen­tire con par­ti­co­lare forza nei paesi che si sono defi­niti in ter­mini nazio­nali più di recente, come quelli che sono emersi dalla ex Jugo­sla­via. In que­ste realtà, soprat­tutto l’identità nazio­nale e quella reli­giosa, impo­ste da chi si trova al potere, fini­scono per essere messe al ser­vi­zio della costru­zione di una coe­sione sociale interna che fini­sce per esclu­dere gli altri e i diversi, che ancora una volta con­duce al raf­for­za­mento di sistemi auto­ri­tari e/o tota­li­tari che negano i diritti umani fon­da­men­tali. Quanto alla minac­cia dell’Isis, oggi si potrebbe forse guar­dare alle cose in que­sti ter­mini, ma all’epoca in cui ho scritto il libro, oltre otto anni fa, le vicende rela­tive allo Stato Isla­mico non erano ancora diven­tate così cen­trali e domi­nanti nel dibat­tito internazionale.

I pro­ta­go­ni­sti del libro rac­con­tano come, dopo una prima incer­tezza, in Ger­ma­nia si sia fatto molto per non chiu­dere il capi­tolo della memo­ria dei cri­mini del nazi­smo, isti­tuendo ban­che dati e un appo­sito archi­vio giu­di­zia­rio a Lud­wig­sburg, vicino a Stoc­carda. Come ricor­dava lei stessa, nel suo paese, la Croa­zia, dove il geno­ci­dio trovò zelanti col­la­bo­ra­tori, non si è fatto altret­tanto. In que­sto con­te­sto che effetto le fa vedere che a Spa­lato c’è ancora oggi chi dipinge un’enorme croce unci­nata su un campo di cal­cio, come acca­duto nei giorni scorsi in occa­sione del match con­tro l’Italia?
Sono esat­ta­mente que­sti i pen­sieri che avevo in testa men­tre scri­vevo il libro. Il pas­sato non è mai sol­tanto il pas­sato. Può essere il nostro pre­sente o addi­rit­tura il nostro futuro: tutto dipende dal modo in cui ce ne occu­piamo e se ne sono occu­pate le gene­ra­zioni che ci hanno pre­ce­duto. Se cer­chiamo di sep­pel­lire quanto è avve­nuto, di dimen­ti­carlo, non faremo altro che aiu­tarlo a tor­nare per ricor­darci che è ancora vivo e vegeto. Se invece sce­gliamo di misu­rarci con tutto ciò, e non abbiamo paura di guar­dare in fac­cia costan­te­mente la sto­ria che ci ha pre­ce­duto, per quanto brutto, orri­bile e mal­va­gio sia il suo volto, come anche, a volte, nobile, ricco e gra­ti­fi­cante, non ci capi­terà più di avere della grandi e brutte sor­prese. Nei giorni scorsi, quando è avve­nuto l’inammissibile «inci­dente» della sva­stica non ero in Croa­zia, ero già arri­vata in Ita­lia, ma spero che il governo rea­gi­sca in maniera molto riso­luta. Se così non fosse, que­sto sì sarebbe un segno di allarme serio.