Affari&Finanza 15/6/2015, 15 giugno 2015
SALARIO MINIMO E CONTRATTI AZIENDALI LA SFIDA DELLA MODERNITÀ PER IL SINDACATO
Fine della certificazione sindacale fai da te, fine di un’epoca. Entro questo mese l’Inps renderà noti i dati sugli iscritti a ciascun sindacato. Sapremo finalmente quanti sono davvero i lavoratori che hanno la tessera in tasca e poi anche l’effettiva rappresentatività delle confederazioni Cgil, Cisl e Uil nonché della galassia - fino ad adesso assai poco trasparente - del sindacalismo autonomo. Chi risulterà rappresentativo firmerà i contratti di lavoro con efficacia erga omnes. Passaggio complicato, e pure con qualche incertezza, quello sulla rappresentatività perché i conteggi erano stati originariamente affidati al Cnel. Si tratta di miscelare il numero degli iscritti con quello dei voti ottenuti dai sindacati nelle elezioni per i rappresentanti di base (da qui la rappresentatività).
Il Cnel però è un organismo a un passo dalla cancellazione per effetto della riforma costituzionale già approvata in prima lettura in entrambi i rami del Parlamento. Bisognerà individuare un altro soggetto terzo, distinto anche dal governo che continua ad essere parte in causa essendo il datore di lavoro di oltre tre milioni di addetti, oppure lasciare pro tempore il compito ancora al Cnel. Certo per le relazioni industriali i numeri dell’Inps rappresenteranno un cambiamento straordinario. Passa anche da loro l’avvio di un’altra stagione della contrattazione. I due temi sono strettamente connessi. E forse le relazioni industriali possono avere un ruolo non secondario nel sostenere il recupero dell’economia dalla recessione in cui siamo stati intrappolati per lungo tempo. Può essere un’opportunità per i sindacati finiti nell’angolo per colpa di una crisi infinita, appunto, ma pure per i loro colpevoli ritardi culturali, per le loro divisioni e, da ultimo, per la scelta di governo Renzi di disintermediare i rapporti sociali. Eppure una relazione dovrà pur esserci tra il tasso di crescita e il ruolo dei sindacati se la dinamica dell’economia nazionale è stata decisamente maggiore nei momenti in cui l’azione (anche contrattuale) di Cgil, Cisl e Uil è stata più forte. Negli anni Settanta il Pil italiano è aumentato complessivamente del 45,2 per cento e parallelamente sono cresciuti i diritti, le tutele, i redditi dei lavoratori; negli anni Ottanta è cominciato il lento declino con un Pil a + 26,9 per cento ma ci sono state anche le spaccature sindacali intorno alle modifiche del meccanismo della scala mobile e la storica sconfitta alla Fiat di Cesare Romiti; negli anni Novanta, con l’azione di supplenza delle parti sociali nei confronti di una politica delegittimata dallo scandalo di Tangentopoli e costretta a rifugiarsi nel bipolarismo della cosiddetta Seconda Repubblica, il Pil è aumentato del 17 per cento. Infine in questo primo decennio del nuovo secolo la ricchezza nazionale è aumentata solo del 2,5 per cento, con i sindacati profondamente divisi tra loro e incerti di fronte all’emergere dirompente dei nuovi lavori. Colpa del rigorismo europeo? Della globalizzazione dei mercati? Di un sistema istituzionale italiano ingolfato e inadatto? Di un debito pubblico mostruoso? Di un welfare state che non promuove l’occupazione ma si limita (costosamente) a risarcire la fine del lavoro? Di tutte queste cose messe insieme e di un male profondo che ha a che fare pure con il modello di relazioni industriali: la bassa produttività, «un problema italiano», come ha sintetizzato l’economista Michele Pellizzari sul sito lavoce. info. Alcuni confronti su dati dell’Ocse del 2012, gli ultimi disponibili, tratti dall’articolo di Pellizzari: in un’ora di lavoro il lavoratore medio italiano produce beni o servizi per un valore di circa 37 dollari; negli Stati Uniti per 56 dollari (+ 50 per cento); 50 dollari in Francia e Germania (più di un terzo rispetto all’Italia); 41 dollari in Spagna (+ 10 per cento). Ecco perché allora la crescita può dipendere pure dai contratti di lavoro. Insomma si potrebbe ipotizzare che esiste un potenziale “valore aggiunto” dei sindacati, che produttive relazioni sindacali fanno bene all’economia (la Germania ne è un esempio virtuoso) e che, al contrario, quando i sindacati e le imprese svolgono male il proprio mestiere negoziale i danni si propagano lungo tutto il sistema economico. Con effetti collaterali, probabilmente, superiori a quanto si percepisca in termini di redistribuzione della i ricchezza, di equità nelle politiche economiche e fiscali, di contrasto alla povertà, di mobilità sociale. Giorgio Squinzi, presidente della Confindustria, ha lanciato la sua proposta: rendere alternativi il contratto nazionale e quello aziendale, dopo che il modello ancorato all’inflazione attesa è scaduto lo scorso anno. La Cisl si è detta pronta al confronto. La Uil ha proposto di legare gli incrementi retributivi a livello nazionale all’andamento del Pil dopo che l’indice Ipca (l’inflazione prevista depurata dalla quota importata) mostra tutta la sua inadeguatezza di fronte all’inedito scenario della deflazione, tanto che gli industriali chimici hanno chiesto indietro 79 euro e i metalmeccanici si preparano a fare altrettanto. La Cgil non ha alcuna intenzione di indebolire il contratto nazionale e deve fare i conti con l’opposizione interna della Fiom di Maurizio Landini che non ha nemmeno condiviso il Testo unico sulla rappresentanza (sottoscritto con la Confindustria) al quale invece, dopo aver perso un ricorso giurisdizionale, hanno aderito i sindacati di base dell’Usb. Il governo ha scelto di non invadere il terreno di gioco delle parti sociali. Aveva una carta in mano ma ha deciso di giocarsela più in là. Ha congelato il decreto del Jobs act che prevedeva l’introduzione in via sperimentale del salario minimo legale nei settori non coperti dalla contrattazione. Certo, piccola cosa rispetto al pesante modello contrattuale, ma sufficientemente idonea a inserirsi come un “cavallo di Troia” per erodere la stabilità del sistema e minacciare seriamente l’indisturbata “autorità salariale” dei sindacati maggiormente rappresentativi. D’altra parte il compito del salario minimo (l’Italia è uno dei pochi paesi in Europa a non averlo) è stato svolto finora, per condivisa giurisprudenza, proprio dai minimi contrattuali introdotti dagli accordi firmati dai sindacati. Che ora hanno a disposizione alcuni mesi (sostanzialmente il periodo estivo) per contribuire a definire una proposta sul salario minimo (scegliendo il modello duale come in Germania in cui il salario minimo convive con i contratti nazionali) e per concordare con le controparti imprenditoriali un nuovo schema di contrattazione nel quale si applicheranno le regole della rappresentanza. Se tutto questo non accadrà sarà il governo a intervenire con una legge che a quel punto varrà per tutti non solo per il settore industriale rappresentato dalla Confindustria. Ed è piuttosto evidente nei rimandi alla contrattazione contenuti negli ultimi decreti sul Jobs act varati giovedì scorso la linea del governo: incentivare i negoziati di livello aziendale, spostare in maniera più decisa rispetto al passato il baricentro della contrattazione dal centro alla periferia. Qui ci sono gli spazi per le nuove flessibilità organizzative scambiate anche con la flessibilità salariale fino alla deroghe, non sempre in chiave difensiva, agli accordi nazionali. D’altra parte i nuovi investimenti della Lamborghini (gruppo Volkswagen) per la produzione del Suv non sono forse arrivati nel bolognese anziché andare in Slovacchia anche perché sono state ridotte le maggiorazioni sui tempi, tagli che avranno effetti positivi sulla produttività? Le strade della contrattazione aziendale sono infinite. L’esperienza della contrattazione del welfare aziendale (borse di studio, servizi sanitari, cure odontoiatriche, palestra, buoni spesa, ecc) si sta diffondendo non solo nei grandi gruppi. Da un approccio paternalistico si sta passando, perché conviene pure all’impresa, allo scambio negoziale (l’esempio della Luxottica con le risorse destinate ai benefit ricavate dalle performance qualitative aziendali è davvero indicativo). Ed è dunque in periferia che oggi vede in campo una nuova generazione di sindacalisti, meno ideologica, più pragmatica e più unitaria rispetto alle contrapposizioni al centro. Ma serve pure una cultura d’impresa diversa. I limiti del nostro apparato produttivo emergono anche in questa prospettiva, perché non è nelle aziende di piccole dimensioni che potranno concretizzarsi vie alte alla produttività collegata alla contrattazione. È nelle nuove filiere della produzione, dove i confini settoriali scoloriscono, che probabilmente bisogna sperimentare diversi schemi di contrattazione decentrata. Bisogna avere coraggio da entrambe le parti per risolvere il “problema italiano” e così tornare a crescere.
Affari&Finanza 15/6/2015