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 2015  giugno 16 Martedì calendario

Notizie tratte da: Sergio Romano, In lode della Guerra fredda. Una controstoria, Longanesi 2015, pp

Notizie tratte da: Sergio Romano, In lode della Guerra fredda. Una controstoria, Longanesi 2015, pp. 140, 16 euro.

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• «La fine della Guerra fredda liberava i popoli dell’Europa centrorientale dal giogo sovietico e tutti noi, in Europa occidentale, dall’incubo di una guerra nucleare. Sapevamo che il crollo del comunismo avrebbe provocato, come ogni terremoto, alcune crisi di assestamento, ma eravamo convinti che la libertà avrebbe garantito la pace europea e, in una prospettiva di medio termine, aiutato i vecchi satelliti dell’Urss a costruire migliori sistemi politici ed economici. Non ci rendemmo conto, tuttavia, che l’Europa, nel 1989, non stava passando dalla guerra alla pace. I quasi cinquant’anni trascorsi dalla fine della Seconda guerra mondiale erano stati la pace più lunga del continente euroasiatico dai trattati di Vestfalia ai nostri giorni».

• «Nel 1949 le democrazie europee e gli Stati Uniti avevano firmato il Patto Atlantico e nei mesi seguenti avevano completato l’alleanza con la creazione di una organizzazione militare permanente che fu chiamata Nato (North Atlantic Treaty Organization). Per la prima volta nella storia d’Europa un gruppo di Stati decise di vivere continuamente sul piede di guerra con un comandante supremo, comandi regionali, basi comuni e piani strategici che venivano periodicamente aggiornati».

• «L’Unione Sovietica deplorò la nascita della Nato e orchestrò una grande campagna contro le “intenzioni bellicose” degli Stati Uniti e dei loro alleati. (…) La goccia che fece traboccare il vaso fu l’ingresso nella Nato della Repubblica federale di Germania il 6 maggio del 1955. Gli Stati Uniti sostenevano da tempo che l’esercito tedesco era indispensabile alla difesa dell’Europa. Quando riuscirono finalmente a superare le resistenze francesi e inglesi, l’Urss reagì con un Trattato di amicizia, cooperazione e mutua assistenza che fu firmato a Varsavia il 14 maggio del 1955, poco più di una settimana dopo l’ingresso della Germania nella Nato. Al patto sovietico aderirono l’Albania (che ne fece parte solo per qualche anno), la Bulgaria, la Cecoslovacchia, la Germania dell’Est, la Polonia, la Romania e l’Ungheria».

• Allo scoppio della rivoluzione nel luglio 1956, l’Ungheria «faceva parte dell’alleanza con cui i sovietici avevano risposto alla creazione della Nato. Era difficile immaginare che Mosca avrebbe tollerato l’uscita dell’Ungheria dal Patto. Se lo avesse permesso, lo strappo di Budapest avrebbe aperto un varco nella frontiera fra i due blocchi e creato un pericoloso precedente per gli altri membri dell’alleanza sovietica. Il generale Eisenhower, allora presidente degli Stati Uniti e impegnato nella campagna elettorale per il suo secondo mandato, fu tra i primi a comprendere che l’Occidente avrebbe evitato il conflitto soltanto astenendosi da qualsiasi diretta interferenza nella crisi. Ma non poteva dirlo espressamente, e le inevitabili deplorazioni occidentali dell’invasione sovietica crearono negli insorti ungheresi l’attesa di un intervento che non si sarebbe mai materializzato».

• Dopo aver assistito, nell’arco di dodici anni, alla fuga di due milioni e mezzo di cittadini dal «paradiso comunista» di Berlino Est, nel 1961 «i sovietici decisero di costruire un muro lungo 155 km. La decisione provocò indignazione e paura. Ma il secondo sentimento era alquanto esagerato. La costruzione del muro dimostrò che l’Unione Sovietica preferiva l’isolamento a un’emorragia demografica che avrebbe messo in discussione l’esistenza del suo satellite tedesco. Il suo gesto sembrò bellicoso e minaccioso, ma ebbe l’effetto di congelare gli equilibri politici e militari in Europa centrale. La situazione europea fu più stabile, dopo il muro, di quanto fosse stata prima della sua costruzione».

• Repressa nel sangue la Primavera di Praga nel 1968 e ripristinato l’ordine nel sostanziale silenzio delle potenze atlantiche, «i sovietici sottoposero al governo di Praga un nuovo Trattato di amicizia, cooperazione e mutua assistenza, firmato il 6 maggio 1970. (…) Uno degli articoli più interessanti del trattato era il n. 9, dove si affermava che una delle condizioni per garantire la sicurezza europea era “l’immutabilità dei confini statali tracciati in Europa dopo la Seconda guerra mondiale”. Tradotta in chiaro quella frase significava che la pace dipendeva dalla continua divisione della Germania. Molti uomini di Stato occidentali non si sarebbero espressi in quei termini, ma avevano le stesse convinzioni».

• «La crisi cecoslovacca aveva confermato che l’Occidente non era disposto a fare la guerra e che il momento di un’intesa si stava avvicinando. L’Urss cominciò a chiedere insistentemente la convocazione di una conferenza “per la cooperazione e la sicurezza in Europa”. (…) I lavori della Conferenza durarono due anni e si conclusero con un documento che il pudore preferì definire Atto Finale, anziché Trattato, e che prese il suo nome da quello della capitale finlandese dove fu firmato. (…) Il punto a cui l’Urss teneva maggiormente era quello sull’“inviolabilità delle frontiere”, un principio che, tradotto in chiaro, significava come sappiamo: la Germania deve restare divisa in due Stati. Gli occidentali lo sottoscrissero perché erano della stessa opinione, ma vollero dimostrare di avere strappato ai sovietici qualcosa e insistettero per includere nell’Atto due punti “democratici”: il primo sul “rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, fra cui la libertà di coscienza, pensiero e professione di fede”, il secondo sull’“eguaglianza dei diritti e l’autodeterminazione dei popoli”. Tutti sapevano che l’intoccabilità delle frontiere e l’autodeterminazione dei popoli possono essere in molte circostanze difficilmente compatibili. Ma il desiderio di un accordo, anche se raggiunto con una buona dose d’ipocrisia, finì per prevalere su ogni altra considerazione».

• «Il 26 maggio 1972 venne concluso l’accordo forse più importante della Guerra fredda: quello con cui gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica si impegnavano a limitare la costruzione di basi antimissilistiche. Ciascuna delle due maggiori potenze accettava, implicitamente, di non aspirare all’invulnerabilità, di lasciare scoperta una parte del proprio territorio nazionale, di non impedire che un secondo colpo dell’avversario restituisse il danno inflitto dall’altro con un primo colpo. Nello stesso giorno fu firmato anche un accordo sulla limitazione degli armamenti
strategici offensivi. Considerati insieme, i due accordi erano i più rassicuranti conclusi nella fase della Guerra fredda che seguì la crisi cecoslovacca».

• «La Guerra fredda normalizzata e regolamentata era senza dubbio la migliore delle paci possibili. Ma non impedì, in quasi tutte le sue fasi, che ciascuna delle due potenze continuasse a fare o lasciar fare una politica espansiva e aggressiva, anche con le armi, nelle aree di influenza in cui riteneva di avere interessi e diritti. Senza farsi guerra, Usa e Urss si trovarono così in campi opposti in Corea, in Vietnam, in Medio Oriente, nei Caraibi, nell’Africa a sud del Sahara e nel Corno d’Africa. Finché l’altra potenza non raccoglieva la provocazione e lasciava a quella maggiormente impegnata un certo margine di libertà, gli equilibri venivano rispettati. Ma vi furono casi in cui anche una guerra periferica poteva pregiudicare la solidità del sistema. Accadde soprattutto in Corea, a Cuba, in Vietnam, nel Golfo (Persico per gli iraniani, Arabico per gli arabi) e in Afghanistan nel dicembre del 1979».

• La rivoluzione castrista fu inizialmente «un moto nazionale, non diverso da quelli che avevano ispirato le province latino-americane del regno di Spagna e del Portogallo nella prima metà dell’Ottocento. L’indipendenza di Cuba, nel 1898, era giunta tardi, era stata conquistata grazie all’intervento degli Stati Uniti e aveva avuto l’effetto di trasformare la colonia spagnola in un protettorato nordamericano. Quando rovesciò il regime di Fulgencio Batista ed entrò trionfalmente all’Avana nel gennaio 1959, Fidel Castro era quindi l’ultimo dei libertador. Divenne comunista più tardi, quando Washington lo trattò alla stregua di un usurpatore e il nuovo leader cubano ritenne, non senza qualche ragione, che la sua isola, a sole novanta miglia dalle coste della Florida, sarebbe stata indipendente soltanto se avesse avuto un protettore potente e lontano»: l’Urss, appunto.

• Nella crisi cubana dei missili sovietici del 1962, «l’America, alla fine, sembrò vincitrice. Le navi sovietiche si fermarono di fronte alla flotta americana, schierata nei Caraibi, e Mosca rinunciò all’installazione dei missili. La decisione fu celebrata come una vittoria degli Stati Uniti contro le inammissibili pretese della maggiore potenza comunista mondiale. Ma l’accordo prevedeva anche che gli Stati Uniti avrebbero rispettato l’indipendenza cubana, che la presenza sovietica a Cuba sarebbe stata tollerata, che i Jupiter [i missili precedentemente installati dagli Stati Uniti in Italia e Turchia, in funzione anti-sovietica – ndr], anche se l’informazione fu data al mondo con il contagocce, sarebbero stati rimossi. Non era poco. (…) Fu uno dei migliori accordi della Guerra fredda, la dimostrazione che nessuna delle due grandi potenze voleva il conflitto».

• «Anche nella guerra del Vietnam, come in quella di Corea, vi furono equivoci e malintesi. All’inizio, mentre i francesi combattevano contro le milizie comuniste dei vietcong, gli americani (…) si limitarono a qualche insufficiente sostegno logistico. Ma non appena compresero, dopo la sconfitta francese a Dien Bien Phu, che il Vietnam indipendente non avrebbe avuto la fibra morale e civile per battersi con successo contro le formazioni comuniste del Nord, scivolarono, un passo alla volta, nel conflitto. Il presidente Eisenhower, dopo la sconfitta francese, aveva detto, nel corso di una conferenza stampa: “Esiste una fila composta da pezzi del domino; ne buttate giù uno e prima o dopo cadrà anche l’ultimo”. Da quel momento, la “teoria del domino” ispirò la politica estera americana in Asia».

• Nella seconda metà degli anni Settanta, «chiuso, finalmente, il capitolo vietnamita e terminato nel frattempo il negoziato di Helsinki per la firma di un Atto che sanciva l’inviolabilità dei confini europei, la Guerra fredda divenne in Europa una “pace fredda”, insoddisfacente per alcuni Paesi forse, ma fondata su reciproche convenienze. Niente, tuttavia, vietava alle due maggiori potenze di continuare a combattersi per procura in altri continenti».

• Progressivamente, con la decolonizzazione, «il vecchio rapporto dell’America e degli Stati europei con i popoli di altri continenti (soprattutto Africa e America Latina) si rovesciò. Le vecchie colonie, divenute indipendenti, finirono per determinare almeno in parte la politica estera dei loro vecchi padroni. Ansiosi di presidiare posizioni che potevano essere attratte nell’orbita sovietica, gli Stati Uniti comperarono l’amicizia o l’alleanza di molti Paesi, soprattutto africani. (…) Le conquiste dell’una e dell’altra potenza, tuttavia, erano effimere. Non vi era Paese, soprattutto in Africa, in cui il dittatore non fosse pronto a saltare da un campo all’altro per spuntare un prezzo migliore. Chi conquistava un amico rischiava di consegnarlo, poco dopo, al suo avversario».

• Quando, nel dicembre del 1979, decisero d’invadere l’Afghanistan, il cui regime comunista era diviso tra una fazione filo-sovietica e una filo-cinese, «i sovietici non potevano ignorare che la mossa avrebbe suscitato reazioni occidentali, ma qualcuno al vertice dello Stato (il vecchio Andrej Gromyko in particolare) si ostinò a vedere dietro i bisticci della classe dirigente afghana un disegno ostile dell’Iran, del Pakistan, della Cina e, naturalmente, degli Stati Uniti. Ai sospetti di Mosca corrispondevano, come in uno specchio, quelli di Washington. (…) Nessuno dei due, invece, aveva previsto l’esplosione di quel nazionalismo tribale e religioso che neppure l’Impero britannico era riuscito a domare nel secolo precedente. Quando se ne accorsero, gli americani decisero di combattere i sovietici per procura con una coalizione che finì per realizzare i timori di Gromyko allargando il conflitto a Cina, Pakistan e Arabia Saudita. Il risultato fu, per entrambi, disastroso. L’Unione Sovietica rimase per otto anni prigioniera di una guerra che non poteva vincere e che suscitò molti malumori nella sua società. Gli Stati Uniti furono la levatrice di Osama bin Laden e di un jihadismo fanatico che diventerà, vent’anni dopo, il loro peggiore incubo».

• «L’ultimo atto, nella storia del comunismo europeo, andò in scena nella Repubblica democratica tedesca, dove nell’ottobre 1989 Gorbačëv andò a festeggiare il quarantesimo anniversario della fondazione dello Stato. (…) In un discorso celebrativo alla presenza di Erich Honecker, decano della resistenza comunista contro Hitler e presidente del Consiglio di Stato, Gorbačëv accusò il suo ospite di miopia politica. “Chi arriva troppo tardi”, disse, “viene punito dalla vita”. Capì, quando le sue parole furono accolte da uno scrosciante applauso, che aveva appena condannato a morte il regime comunista tedesco? Quando fu chiaro che le truppe sovietiche di stanza nella Germania orientale non sarebbero intervenute per rimettere ordine in un Paese dove il regime cominciava a traballare, il governo dovette aprire il muro e lasciarlo alla furia distruttrice del popolo di Berlino. Un anno dopo, la Repubblica democratica tedesca cessò di esistere e divenne parte della Germania unificata».

• «Una sorte analoga stava toccando agli altri satelliti dell’Urss in Europa centrorientale. In alcuni casi, come la Polonia e la Cecoslovacchia, esistevano dissidenti, in buona parte veterani delle lotte di Solidarność e della “primavera di Praga”, che erano pronti ad assumere le responsabilità del potere. In altri casi, come la Romania, l’uscita dal comunismo fu orchestrata da opportunisti che avevano abbandonato la nave poco prima del naufragio e si sbarazzarono sommariamente di Nicolae Ceauşescu dopo una sorta di farsa processuale. In Ungheria, dove il regime era da tempo più mite e aveva facilitato l’ingresso in Austria, durante l’estate, di turisti giunti dalla Germania orientale, tutto fu ancora più semplice. In due anni l’Urss perdette il suo impero europeo. (…) Noi avremmo dovuto ringraziare Gorbačëv, che aveva tenuto le truppe sovietiche in caserma e che divenne, in Occidente, straordinariamente popolare. Ma i russi non avevano alcun motivo di essergli grati».

• In Unione Sovietica, «la crisi del sistema divenne costituzionale quando riapparve sulla scena politica un uomo, Boris El’cin, che aveva conquistato popolarità negli anni precedenti, ma era stato condannato a una sorta di semiesilio per la sua irrefrenabile esuberanza. Uscito dal purgatorio, El’cin aveva approfittato della riforma del sistema federale per farsi eleggere al Congresso dei deputati del popolo nel marzo del 1989 e per candidarsi successivamente alla presidenza della Repubblica socialista federativa russa. In altri tempi, la carica sarebbe stata politicamente irrilevante, ma l’elezione, nelle nuove circostanze, fece di lui il solo uomo politico che potesse rivendicare il crisma del voto popolare. Proclamò la sovranità della sua repubblica e dichiarò che le leggi russe avrebbero avuto la precedenza su quelle dell’Urss. Con un solo gesto aveva ribaltato la gerarchia dei rapporti federali».

• La posizione di El’cin «divenne ancora più forte quando i nemici della perestrojka al vertice dello Stato tentarono di rovesciare il processo riformatore con un colpo di Stato e sequestrarono Gorbačëv in Crimea, dove stava trascorrendo un periodo di vacanze. Il colpo di Stato fallì perché gli organizzatori avevano contato imprudentemente sull’immediata acquiescenza del Paese e del partito. Ma il partito, disorientato, stette a guardare e El’cin si oppose pubblicamente ai golpisti lanciando dalla torretta di un carro armato un appello che fu trasmesso da tutte le televisioni del mondo. Fu lui, quindi, non Gorbačëv, il vincitore. Ne approfittò per costringere il segretario generale a certificare la morte del partito e cominciò a negoziare con i presidenti delle altre repubbliche slave la creazione di una nuova federazione che si sarebbe chiamata Comunità degli Stati indipendenti. Il nuovo Stato nacque in una foresta della Bielorussia, nei pressi di Minsk, l’8 dicembre 1991. Poco più di due settimane dopo, Gorbačëv annunciò le sue dimissioni e il tricolore russo sostituì la bandiera rossa sui pennoni del Cremlino».

• «Nelle intenzioni dei suoi fondatori il Commonwealth postsovietico avrebbe rimpiazzato l’intera Unione Sovietica, e si allargò in effetti, nei giorni seguenti, ad altre nove repubbliche: Armenia, Azerbaigian, Kazakistan, Kirghizistan, Moldavia, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan e, nel 1993, Georgia. Mancavano all’appello le tre repubbliche del Baltico – Estonia, Lettonia e Lituania – ma i nuovi inquilini del Cremlino sapevano che sarebbe stato pericoloso ignorare i sentimenti di popoli che appartenevano all’universo polacco-tedesco molto più di quanto appartenessero a quello russo-sovietico. Alle altre repubbliche della vecchia Urss, invece, non potevano rinunciare senza correre il rischio di rimettere in discussione gli equilibri dell’intero sistema».

• Il presidente statunitense George H.W. Bush, «in un discorso pronunciato a Kiev nel corso di un viaggio in Urss, il 1° agosto 1991, quando lo Stato sovietico non era ancora esploso, disse che gli Stati Uniti non intendevano interferire nel modo in cui il potere centrale avrebbe stabilito nuovi rapporti con le repubbliche, ma lasciò comprendere che il suo Paese avrebbe preferito trattare con una Federazione: “Qualcuno ci esorta”, disse nella parte conclusiva del suo discorso, “a scegliere fra il sostegno a Gorbačëv e quello ai leader desiderosi d’indipendenza delle singole repubbliche. È una falsa scelta. Credo, in tutta franchezza, che il presidente Gorbačëv abbia fatto cose sorprendenti e che le sue politiche di glasnost’, perestrojka e democratizzazione vadano nel senso della libertà politica, della democrazia e della libertà economica”. Vi era quindi nel suo discorso l’implicita esortazione a evitare la dissoluzione dell’Urss e le pericolose conseguenze che ne sarebbero derivate per la geografia politica del più grande Stato dell’Europa orientale».

• Per l’America «bellicosa e imperiale» di Clinton «la Jugoslavia fu un’eccellente palestra, un terreno in cui gli americani non avrebbero rischiato le loro vite, ma avrebbero messo alla prova la nuova Nato sperimentando tattiche e strategie da affinare e usare in altre circostanze. Bombardarono i serbi in Bosnia. Aiutarono i croati con società mercenarie a riconquistare la Slavonia orientale e la Kninska Krajina, le due province abitate da serbi che si erano proclamate indipendenti. Confezionarono per la Bosnia a Dayton, nell’Ohio, in una base dell’aeronautica americana, uno pseudostato, tuttora ingovernabile. Convinsero i loro compiacenti alleati, nel febbraio 1999, ad approvare un ultimatum diretto alla Serbia dal castello di Rambouillet, che a uno storico inglese sembrò più bellicoso e arrogante di quello che l’Austria aveva inviato a Belgrado dopo l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando».

• «Ultimo atto della tragedia jugoslava», l’intervento in Kosovo fu «la prima guerra della Nato. L’organizzazione era stata creata nel 1950 per difendere l’Europa contro la minaccia sovietica. Ma fu impiegata soltanto dopo la fine della Guerra fredda contro un Paese che nei decenni precedenti non era appartenuto ad alcuno dei due campi e aveva contribuito, con il suo “non impegno”, alla pace del continente. Fu la guerra di tutti i Paesi che facevano parte dell’Alleanza, ma il comandante supremo era americano e rispondeva delle sue scelte strategiche soltanto al presidente degli Stati Uniti. Il Consiglio militare dell’Alleanza si riuniva ogni mattina per scegliere i bersagli che sarebbero stati colpiti nelle incursioni aeree delle ore successive. Ma anche quella collegialità finì per infastidire gli americani e fu abolita nelle altre “guerre della Nato” combattute da allora. Dopo essere stata per più di quarant’anni il necessario contrappeso del Patto di Varsavia, l’organizzazione stava diventando l’uniforme che gli americani indossano per dare una parvenza internazionalista ai loro disegni politici e strategici».

• «Sono questi gli anni in cui gli Stati Uniti dichiarano esplicitamente di essere la “potenza indispensabile”, non soggetta quindi agli impegni e agli obblighi internazionali degli altri Stati. (…) L’America ritiene di avere il diritto a uno statuto speciale. Ne darà altre prove collocando nello spazio satelliti attrezzati per ascoltare il mondo e intercettare le conversazioni telefoniche dei suoi alleati, o pretendendo che le linee aeree europee forniscano ai suoi servizi d’informazione i nomi dei loro passeggeri e le loro preferenze dietetiche».

• «L’attacco terroristico alle Torri gemelle non fu soltanto il più clamoroso, spettacolare e sanguinoso atto terroristico trasmesso in diretta sugli schermi della televisione globale. Fu per gli americani la dimostrazione che il loro Paese, dopo la fine della Guerra fredda, era paradossalmente più vulnerabile di quanto fosse stato in passato».

• «La risposta di Bush fu quella che gli venne offerta e suggerita dalla componente più imperiale e bellicosa del gruppo dirigente degli Stati Uniti. Le forze armate, le numerose agenzie dell’intelligence e i servizi di sicurezza gli chiesero di essere autorizzati a scavalcare gli steccati che una legislazione liberale e garantista aveva costruito negli anni precedenti. Il Patriot Act, approvato dal Congresso a passo di carica e firmato dal presidente il 26 ottobre, è una delle leggi più poliziesche e illiberali scritte da uno Stato democratico in tempo di pace. Il suo contenuto è nelle parole dell’acronimo. US Patriot Act significa: Uniting and Strengthening America by Providing Appropriate Tools Required to Intercept and Obstruct Terrorism Act, legge per unire e rafforzare l’America fornendole gli strumenti necessari a intercettare e contrastare le azioni terroristiche».

• Gli strumenti autorizzati dal Patriot Act, «come divenne sempre più evidente con il passare del tempo, erano l’incarcerazione sine die, l’uso della tortura negli interrogatori, il ricorso ai tribunali militari per i processi a porte chiuse, la consegna dei detenuti a Paesi in cui ogni individuo sospettato di terrorismo avrebbe avuto meno garanzie di quelle pur limitate che il sistema giudiziario americano, nonostante tutto, avrebbe avuto l’obbligo di fornirgli. Il Patriot Act rovesciò la principale regola della giustizia democratica. Mentre questa vuole che nessuno venga condannato se non sulla base di prove pubblicamente conosciute, la giustizia del Patriot Act vuole che i processi abbiano luogo soltanto se l’accusa non sarà obbligata a fornire pubblicamente alcuna prova».

• In Afghanistan «l’America, negli anni Ottanta, aveva finanziato e armato la guerra dei mujaheddin contro l’Armata Rossa, ma aveva smesso di occuparsi del Paese quando i talebani, una delle componenti più radicali dell’islamismo combattente (il partito degli studenti di Dio), erano riusciti a impadronirsi del potere a Kabul e avevano creato il più ottuso e intransigente Stato confessionale della regione. Ora, dopo l’11 settembre, a quello Stato non poteva più essere perdonato di dare ospitalità al leader di Al Qaeda, Osama bin Laden, e alle sue milizie, ovvero all’organizzazione che era responsabile dell’attentato contro le Torri gemelle. La reazione degli Stati Uniti era attesa e comprensibile. Ma l’operazione militare si concluse con un doppio fallimento. Osama bin Laden non fu catturato e i talebani, benché cacciati da una larga parte del Paese, trovarono rifugio in zone da cui sarebbero partiti per riconquistare il terreno perduto. (…) Riuscirono a eliminare bin Laden nel 2011, 10 anni dopo l’attentato alle Torri, ma lo uccisero quando aveva perduto buona parte del suo carisma e il numero delle organizzazioni islamiste era nel frattempo cresciuto sino a oscurare il ruolo originario di Al Qaeda».

• «La lunga guerra afghana offrì all’estremismo islamico un campo di battaglia in cui nuove generazioni di combattenti si sarebbero addestrate al mestiere della guerriglia. Ma nessun campo di battaglia fu così grande e fertile come quello che gli americani crearono dopo l’invasione dell’Iraq nella primavera del 2003. (…) La guerra combattuta e vinta in meno di trenta giorni fu soltanto il breve prologo di un conflitto fra sunniti e sciiti che sarebbe durato per oltre un decennio e avrebbe generato altri conflitti in Siria, in Libia, lungo le frontiere meridionali dell’Algeria, della Tunisia e del Marocco, nel Sinai e nelle montagne del Kurdistan. L’America, oggi, è minacciata dai nemici che ha allevato e ingrassato con le guerre scatenate dopo l’11 settembre».

• Quella tra la Russia di Putin e la Cecenia del leader islamista e indipendentista Šamil Basaev «fu una guerra asimmetrica durante la quale i russi combatterono in Cecenia con agguerrite forze speciali e i ceceni in Russia con attentati sanguinosi. (…) I Paesi occidentali seguirono distrattamente questi episodi, apparentemente convinti di assistere a una guerra di liberazione nazionale fra il Davide ceceno e il Golia moscovita: una tesi che dava soddisfazione alla loro radicata percezione della politica russa, sempre inguaribilmente zarista o stalinista. Furono più sensibili alla morte di Anna Politkovskaja (una coraggiosa giornalista, autrice di articoli sugli spregiudicati metodi usati dal corpo di spedizione russo in Cecenia) che a quella dei russi uccisi dal terrorismo ceceno. Non capirono che la Russia di Putin (un Paese in cui i musulmani sono circa 25 milioni) non era meno insidiata dall’islamismo radicale di quanto fossero gli europei e gli americani e che era interesse di entrambi collaborare contro un nemico comune. Prevalse ancora, non soltanto a Washington, la convinzione che la Russia fosse un corpo estraneo al mondo della civiltà occidentale, un vecchio nemico di cui occorreva diffidare, non un possibile partner».

• «L’Unione Sovietica non fu sconfitta dagli Stati Uniti. Fu sconfitta dalle riforme di Gorbačëv. (…) Il colpo di Stato dell’agosto del 1991 fallì, ma dimostrò che il partito di Lenin era diventato ormai un impedimento per qualsiasi riforma il Paese avesse cercato di realizzare negli anni successivi. Il merito di Boris El’cin fu quello di comprendere che il primo passo da compiere, sulla strada dei mutamenti, era la sua eliminazione, e fu questa la ragione per cui costrinse Gorbačëv ad accettarne la dissoluzione il 29 agosto 1991. In ultima analisi l’uomo della perestrojka fallì e l’Urss si disintegrò perché il comunismo non aveva mantenuto le sue promesse e non era più in grado di preservare l’unità di una società delusa e disorientata. Gli Stati Uniti potevano certamente vantarsi di avere offerto proposte migliori, anche se spesso discutibili, e di avere ottenuto una sorta di vittoria morale. Ma una vittoria morale non è una vittoria politica e non vi era stata iniziativa americana, negli anni precedenti, a cui potesse attribuirsi il merito di avere sconfitto l’Unione Sovietica».

• «Vi furono altri continenti in cui la fine della Guerra fredda ebbe l’effetto di rendere il quadro politico più incerto e traballante. In Medio Oriente e in Africa le grandi potenze avevano clienti e vassalli più o meno costanti e fedeli. Poteva accadere che un Paese passasse da un campo all’altro, come nel caso dell’Egitto, dell’Etiopia e della Somalia, o che due Stati africani si facessero la guerra per contendersi un territorio. Ma la logica degli equilibri che governava il rapporto fra i due grandi blocchi in Europa e nell’Atlantico finiva per inquadrare anche i conflitti africani in un più ampio contesto. Quella stessa logica governava indirettamente anche i rapporti tra le grandi potenze asiatiche. (…) Nessuno ignorava che non vi era partita in cui non vi fosse fra i giocatori locali l’ombra dei maggiori protagonisti della Guerra fredda. Dopo il crollo del Muro e la dissoluzione dell’Urss, quasi tutti i Paesi africani persero gran parte del valore che avevano avuto alla Borsa delle relazioni internazionali».

• «Uno dei casi più interessanti, per le conseguenze che ne derivarono, è quello della Somalia. Quando il suo dittatore fu costretto alla fuga e il Paese precipitò in una caotica guerra tribale, il presidente degli Stati Uniti (era George H.W. Bush) non volle che il Paese fosse abbandonato a se stesso e decise che l’America avrebbe guidato una spedizione umanitaria per la restaurazione dell’ordine. Era il modello di una nuova diplomazia interventista, su scala globale, in cui le maggiori potenze avrebbero lavorato insieme, ciascuna nella propria area d’influenza, per l’ordine del mondo. Era il sogno di Roosevelt a Jalta. (…) Ma, non appena due elicotteri americani vennero abbattuti e sedici rangers perdettero la vita in un’imboscata, il suo successore, Bill Clinton, decise che il corpo di spedizione sarebbe rientrato in patria. Gli Stati Uniti, in tal modo, dettero un esempio che era esattamente l’opposto di quello voluto da Bush. Dissero implicitamente che nessuna crisi africana meritava la morte di un soldato americano. Molti signori della guerra ne fecero tesoro e cominciò da quel momento la lunga sequenza dei massacri africani: Ruanda, Sierra Leone, Liberia, Sudan, Congo. Qualche anno dopo, gli Stati Uniti dettero un altro segnale non meno importante. Quando bombardarono la Serbia per “salvare” il Kosovo dimostrarono che non tutti gli interventi “umanitari” avevano, ai loro occhi, la stessa importanza e meritavano lo stesso impegno».

• «La Guerra fredda aveva avuto un grande merito: aveva costretto i due campi a evitare pericolose provocazioni, a comportarsi responsabilmente. La fine della Guerra fredda, per quanto concerne gli Stati Uniti, sancì invece la priorità della politica interna sulla politica estera. La profezia di Eisenhower nell’ultimo messaggio ai suoi connazionali (“diffidate del complesso militare industriale”) divenne ancora più attuale di quanto fosse stata nel momento in cui era stata pronunciata».

• «La Guerra fredda fu combattuta anche sul piano economico e culturale, ma la gestione delle crisi, anche quando coinvolgevano i partiti politici e i gruppi più rappresentativi delle società nazionali, fu sempre in ultima analisi responsabilità dei governi. Raramente, come nella seconda metà del Novecento, la storia politica ha confermato un principio proclamato nell’Ottocento da un grande storico tedesco, Leopold von Ranke: il Primat der Aussenpolitik, il primato della politica estera. Messi alle strette, i governi erano indotti dalla logica della Guerra fredda a prendere decisioni che non erano necessariamente condivise dai loro cittadini. Oggi, invece, i governi sembrano soggetti agli umori della pubblica opinione, alle pressioni dei gruppi che esercitano una maggiore influenza sulla società, alle scadenze elettorali».

• «Finché sarà un sodalizio in cui ogni socio agisce soltanto quando è direttamente coinvolto, l’Europa dirà al mondo, implicitamente, che gli interessi di un Paese non sono necessariamente quelli di tutti. E continuerà a essere una mezza potenza, incapace di valorizzare le virtù e le risorse di cui dispone. Sarà l’Italia del Rinascimento, grande tesoro di talenti e splendori, ma troppo divisa per essere rispettata e temuta».