Robert Fisk, il Fatto Quotidiano 14/6/2015, 14 giugno 2015
IL CALIFFO, AL-NUSRA E LA VOGLIA MATTA DI UNA CAPITALE SIRIANA
Nella guerra in Siria si sta imponendo una equazione pericolosa: quanto più lontano sei da Damasco, tanto più il regime di Assad sembra avere i giorni contati. E quanto più ti addentri nella vasta area ancora sotto il controllo delle forze governative – e personalmente ho appena percorso quasi 2000 chilometri di montagne, deserto e fronti di guerra – tanto più ti accorgi che la guerra continua e che l’esercito siriano, spesso in netta inferiorità numerica e di armamenti rispetto ai nemici islamisti, non è sul punto di crollare.
Ma ecco alcuni dati di fatto inquietanti. L’Isis e Jabhat al-Nusra stanno scagliando contro le forze di Assad una serie di attacchi suicidi con camion bomba e lungo un fronte talmente vasto che spesso l’esercito nulla può fare per mancanza di uomini.
I MILIZIANI DELL’ISIS FRA MISSILI HI-TECH E CIOCCOLATA
La logistica dei ribelli è hi-tech e molto migliore di quella dell’esercito siriano e molti dei loro sistemi di comunicazione sono di fabbricazione americana. Gli insorti hanno centinaia di missili anticarro teleguidati (tow) via cavo e razzi anticarro a medio raggio Milan e si possono permettere di lanciare contemporaneamente tre o quattro razzi contro un solo carro siriano mandando in tilt i circuiti anti-incendio e facendo quindi esplodere le munizioni e bruciare i militari che si trovano all’interno del blindato. A Palmira, nella provincia di Homs, 1800-2000 combattenti dell’Isis sono stati fronteggiati da un esercito che non era in grado di opporsi efficacemente ai continui attacchi. Nei due giorni precedenti la ritirata, le truppe siriane sono riuscite solo una volta a penetrare tra le file dell’Isis e hanno scoperto che i miliziani disponevano di “uniformi tattiche” di ultima generazione, di missili termici, di pile di libri di preghiere musulmane in russo (appartenenti verosimilmente ai combattenti ceceni) e di migliaia di tavolette di cioccolata. Apparentemente l’Isis pensa anche allo stomaco dei suoi soldati.
Gli “esperti” americani parlano con disinvoltura di come l’esercito siriano effettuerà una “ritirata tattica” sui monti abitati dagli Alawiti, la setta sciita del presidente Assad, per cercare di mantenere aperta la strada che da Damasco porta al Mediterraneo passando per Homs. Gli “esperti” siriani – un po’ più vicini agli scenari di guerra dei cervelloni del tink-tank di Washington – accennano a una strategia più politica. Ciò che il regime deve fare – dicono – consiste nel difendere le città principali lungo l’asse che da Aleppo si spinge a sud passando per Hama, Homs e Damasco per togliere ad Al-Nusra o all’Isis la possibilità di impadronirsi di una potenziale capitale della Siria. L’attuale capitale dell’Isis, Raqqa, è un paesetto nel deserto e nemmeno Palmira, a dispetto della sua importanza simbolica, è una metropoli dalla quale i ribelli potrebbero rivendicare la sovranità nazionale.
Ma conquistare Aleppo, seconda città siriana dopo Damasco, vorrebbe dire per l’Isis avere una autentica capitale. Insomma Aleppo va difesa a tutti i costi per non farla cadere in mano all’Isis. Il neonato “Esercito di conquista” composto dall’unione dei militanti dell’Isis e dei gruppi islamisti satelliti riuniti sotto le bandiere di Al-Nusra, rappresenta oggi la principale minaccia. A Damasco fonti vicine alle forze armate sostengono che 250 famiglie sono state sequestrate per essere giustiziate quando Palmira è caduta in mano ai combattenti del Califfo. Uno degli ultimi fedeli di Assad a lasciare la città mi ha mostrato una foto che ha scattato con il cellulare e che ritrae una ragazzina sorridente, figlia di un ufficiale, che riteneva di essere al sicuro. “Sappiamo che suo padre è stato massacrato”, mi ha detto. “Non sappiamo che ne è stato di lei”.
DA KABUL IN VISITA ALLA MOSCHEA DI UMAYYAD
Ma per dirla con le parole di un ufficiale siriano con cui ho parlato la scorsa settimana: “Dico ai miei soldati che i militanti dell’Isis possono ucciderli, ma che anche loro possono uccidere i combattenti dell’Isis”. Quanto al personale militare iraniano lo si può trovare – mi è capitato più volte questo mese – in gruppetti di due o tre soldati impegnati più ad imparare che a combattere nel ricordo delle tattiche di guerra utilizzate dai loro padri nella titanica guerra durata otto anni contro l’Iraq a seguito dell’invasione del 1980. Sono intelligenti e istruiti; uno di loro si è scusato con me in ottimo inglese di non parlare bene l’inglese: “Il posto sbagliato nel momento sbagliato!”, mi ha detto. Ma gli iraniani sono in Siria nel momento giusto per Bashar al-Assad e lo stesso dicasi per i combattenti sciiti dell’Afghanistan arrivati da Kabul, alcuni dei quali hanno fatto la fila per visitare la moschea di Umayyad a Damasco la settimana passata. Molti indossano tute da lavoro di foggia militare. Sono morti circa 50.000 uomini e si capisce perché l’esercito siriano ha bisogno di soldati. Il periodo di leva in Siria è stato prolungato a tempo indeterminato. E qualora l’esercito dovesse essere sconfitto, nessuna altra forza sarebbe in grado di tenere la Siria unita. Nessuna meraviglia se il presidente Assad fa ricorso a tutta la sua capacità oratoria per lodare l’esercito e le decine di migliaia di “martiri”. La settimana scorsa è stato necessario compiere un pellegrinaggio sull’astronave Galactica, vale a dire al ministero degli Esteri della Siria nella sua sede di Damasco per ascoltare il dottor Faisal Mekdad – è laureato in Medicina oltreché vice ministro degli Esteri – e venire a sapere che il regime è più fiducioso che mai. Cosa prova nel sapere che gli iraniani combattono al loro fianco? Così come gli hezbollah libanesi? Ed è vero – come dicono gli “esperti” americani – che è prevista una “ritirata strategica” verso la costa per mantenere il controllo di Damasco e Latakia? Andare a trovare Faisal Mekdad è un po’ come andare dal dentista. Può essere molto doloroso, ma dopo ci si sente meglio. Almeno per un po’. “È nostro diritto accogliere tutti coloro che vogliono aiutarci in questa guerra”, ci ha detto. “Chiunque sia disposto a venire in Siria per darci una mano è il benvenuto. I nostri nemici sono terroristi e, stando a informazioni quanto mai affidabili, francesi e inglesi si appresterebbero a dire all’Unione europea che il Fronte di Al-Nusra è un gruppo ‘moderato’ anche se Al-Nusra è membro di al Qaeda… Ovviamente per noi è una grande sconfitta ogni piccolo villaggio che perdiamo. Per noi è importante ogni centimetro quadrato della Siria. Ma Aleppo è la seconda città del Paese e perderla sarebbe una tragedia. Ma nelle riunioni del consiglio dei ministri questa possibilità non ci ha mai nemmeno sfiorato. Il nostro piano strategico consiste ora nel fare tutto il possibile per consentire alle nostre forze di raggiungere Aleppo e difenderla”.
MEKDAD: “IDLIB PERSA PER COLPA DELLA TURCHIA”
Che in Consiglio dei ministri si parli di Aleppo è la prova della sua importanza politica e militare. Ho percorso la pericolosa strada per i rifornimenti che si spinge a nord di Aleppo alcuni mesi fa e durante tutto il percorso ci piovevano sulla testa proiettili di ogni genere. L’autostrada a sud può essere attaccata in qualunque momento. Gli uomini di Al-Nusra si servono di mountain bike per attraversare il deserto di notte. “Alcuni mesi fa – continua il dottor Mekdad – prima dell’intervento diretto a sostegno dell’Isis e di Al-Nusra da parte della Turchia, dell’Arabia Saudita e del Qatar, stavamo per mettere a segno una storica avanzata. L’occupazione della città di Idlib non avrebbe avuto mai luogo senza il diretto intervento turco. Sono intervenuti migliaia di turchi e di ceceni che hanno attaccato Idlib e Jisr al-Shugour. Si alternano vittorie e sconfitte. Così è la guerra”.
Ma il dottor Mekdad non ha finito: “È ormai chiaro che senza riorganizzare e rafforzare l’esercito consentendogli di attuare tutte le decisioni prese dal comando, non sarà possibile raggiungere gli obiettivi prefissati”. Il dottor Mekdad ha parlato di nuovi armamenti che dovrebbero sostituire gli obsoleti carri del Patto di Varsavia. Ovviamente si tratta più di parole e promesse che di contratti già firmati. Ma Aleppo continuava a tornare nella nostra conversazione con l’insistenza di una zanzara. “Da un punto di vista strategico e umanitario le città contano tutte, ma nessuna è importante quanto Aleppo. Se si controlla una grande città è probabile che quelle più piccole finiscano per tornare sotto il tuo controllo. Perdere Aleppo sarebbe una catastrofe. Siamo però fiduciosi di poterla difendere. Ma la cosa principale è che la Siria sopravviva”.
© The Independent Traduzione di Carlo Antonio Biscotto
Robert Fisk, il Fatto Quotidiano 14/6/2015