Antonio Gnoli, la Repubblica 14/6/2015, 14 giugno 2015
RENATA SCOTTO. «GIOCANDO A POKER TORNAVO RAGAZZA INSIEME AD ABBADO E PAVAROTTI»
Da molto tempo i treni hanno smesso di essere gentili. Me ne accorgo mentre mezzo ammassato e frastornato sono diretto a Spotorno. Qualche chilometro oltre Savona. Una miscellanea di colori, di fagotti, di merci, di odori, di musiche mi investe in una mattina che si annuncia particolarmente umida e calda. Vado a trovare Renata Scotto. È stata una delle grandi interpreti del Belcanto. Capace di tenere la scena con l’autorità di una regina. Alla stazione mi attende Lorenzo Anselmi, marito della Scotto. Un vecchio signore in calzoncini. È stato un eccellente violinista che ha scelto a un certo punto un’altra strada. Penso che dietro ogni grande donna ci siano a volte uomini discreti e silenziosi. Pronti a sacrificarsi. «Siamo sposati da 55 anni e non ho mai fatto un passo senza prima consigliarmi con quest’uomo», dice la Renata dalla terrazza dove mi accoglie e dove chiacchieriamo liberamente. È una donna volitiva. Il trucco leggero, su un volto pieno, agghinda occhi celesti che sarebbe facile confondere con lo scorcio di mare che si intravede.
Vive qui?
«No, viviamo in America. Un po’ fuori Manhattan. Un tempo abitavamo a Park Avenue. Bello, certo. Ma caotico. Ho bisogno di quiete. Qui, non lontano da Savona dove sono nata, vengo volentieri, un paio di mesi l’anno. Ma dopo un po’ l’America mi manca».
Le manca perché?
«Perché è il luogo dove mi sono sentita più libera. Senza condizionamenti. O almeno senza quelle imposizioni che in Italia subivo e che mi facevano soffrire».
Di solito la libertà è nelle proprie radici.
«Non le rinnego. Ma alla fine uno è davvero se stesso dove si realizza meglio».
Savona le stava stretta?
«A 13 anni andai via. Mi trasferii a Milano. In famiglia erano stupiti e orgogliosi della mia bellissima voce. Un dono da curare prima che fosse troppo tardi. Lo zio, marinaio di professione, comprese esattamente che per sbocciare avrei dovuto essere guidata da un’insegnante seria. Non bastavano quei pochi esercizi fatti con una maestra improvvisata. Perciò fui spedita a Milano. Ero impaurita, lontana dal mio mondo. Ma anche attratta da un futuro che mi appariva incerto, eppure promettente».
Cosa lasciava dietro di sé?
«Piccoli ricordi di felicità leggera. Impalpabile. Perfino imprevista. Come quando a sette anni, per via della guerra, sfollammo a Tovo San Giacomo. Mio padre, vigile urbano, restò a Savona. Con la mamma che era una sarta andammo in questo paesino non lontano da Pietra Ligure. Agli occhi di una bambina il mondo appariva liberato dalla schiavitù del reale. Si trasformava in un suono che avrei dovuto solo avere il coraggio di afferrare. Nonostante la durezza dei giorni mi sentivo parte di un armonia. È lì, forse inconsciamente, decisi che avrei cantato».
Come fu il periodo milanese?
«Vivevo in un convento di suore. Certe mattine erano particolarmente dure. Sveglia all’alba, la messa. Le lezioni. E finalmente la Scala. Tutte le domeniche pomeriggio ero lì. Seguivo il programma musicale. Fu un apprendistato. Poi venne l’audizione con un maestro vero. E a 18 anni contro ogni previsione il debutto con Traviata a Savona. Fu un successo troppo repentino».
Perché?
«Non ero tecnicamente pronta. La natura mi aveva dotato di una bella voce. Ma andava curata. Migliorata. Arricchita. Alfredo Kraus, del quale ero diventata amica, mi portò dalla sua maestra, Mercedes Llopart. Fioccavano le offerte di lavoro. Ma preferii riprendere gli studi. Perfezionarmi nel Belcanto».
Che voce era la sua?
«Soprano, con una grande estensione. Di tre ottave. Quindi una voce acuta. Che per un lungo periodo ho usato con un repertorio fisso. Senza lanciarmi nel verismo o nel drammatico. Cantavo Lucia di Lammermoor, l’ Elisir d’amore, Rigoletto, o Madame Butterfly che pure è un’opera che può far male alla voce. Fu l’apprendistato al Belcanto».
Di solito si sorvola sulla parola “Belcanto”?
«Ha origini lontane. L’attenzione va alla parola recitata. Mentre l’intonazione, il controllo della respirazione, il fraseggio forniscono alla voce un’agilità particolare. E in mezzo vi sono i colori scritti dai compositori che l’interprete deve capire e portare al pubblico. La questione di quali autori vanno ascritti al Belcanto resta aperta fra i critici. Ci si chiede se il verismo metta in crisi il Belcanto. Il mio maestro Gianandrea Gavazzeni sosteneva che il verismo non esisteva. Ma ho qualche dubbio in proposito».
Sono quasi vent’anni che Gavazzeni è morto.
«Fu un uomo di estrema gradevolezza. A volte perfino umile. Più che un maestro sentiva di essere una persona che non aveva mai smesso di imparare. Mi raccontò che da bambino era stato stregato dal Falstaff . Opera complessa. Straordinaria con cui Verdi suggellò la sua rivoluzione musicale. Pensavo al mistero della ricezione. A come la musica, anche la più ardita, possa depositarsi improvvisa nel cuore e nella mente di un bambino. Nella mia storia personale ci fu anche Antonino Votto».
L’allievo prediletto da Toscanini.
«Il suo braccio destro. Non era facile assecondare il genio di Toscanini. Fu l’ultimo grande erede della tradizione operistica. La sua durezza proverbiale e la sua intransigenza si abbattevano sull’orchestra. Votto dovette misurarsi con questa arcigna visione della musica. Seppe trarne il meglio, creando figure altrettanto straordinarie come Riccardo Muti e Claudio Abbado. Peccato che i suoi ultimi anni furono afflitti da una cecità che gli impedì di proseguire nel suo lavoro».
Fu come il furto di un dono.
«È terribile se qualcuno o qualcosa impedisca di portarne a compimento il talento. A volte penso alla generosità con cui la vita ti tratta e al tempo stesso alla crudeltà con cui imprevedibilmente ti strappa a quella ricchezza. Per un credente tutto questo può essere vissuto come una prova».
Per chi non crede?
«C’è il peso di una responsabilità che ricade solo su te stesso. O sulle colpe della natura matrigna, avrebbe detto Leopardi. Non lo so. È difficile accettare il fallimento e non condividerlo con qualcun’altro».
Lei crede?
«Fermamente. Gli anni trascorsi in convento e l’educazione, per quanto possa essere stata discutibile, hanno lasciato una traccia indelebile. Mi dico: chi sono io per poterla rimuovere? L’infanzia e la giovinezza creano un ordine ferreo delle cose, difficile da trasgredire o rompere».
Sente di appartenere ancora alla sua infanzia?
«Penso di sì. Penso che ogni gesto che compio faccia parte di un disegno giovanile, di una storia remota e tuttavia incancellabile. Ciò naturalmente non impedisce di assumersi le responsabilità del momento e il rischio di certe scelte. Ho sempre preferito la chiarezza nei rapporti con le persone con cui ho lavorato».
Che cosa intende dire?
«Non ho mai desiderato, per esempio, un direttore che mi accompagnasse senza capire chi fossi, e quale apporto vero potevo dare al nostro incontro. Ho provato disagio davanti a quei direttori d’orchestra che imponevano il loro tempo. Reagivo d’istinto. Dimmi perché vuoi che io faccia quella determinata cosa. Dimmelo perché non capisco».
E loro?
«Alcuni si comportavano con arroganza, convinti che non dovessero fornire nessuna spiegazione. La voce di un cantante è uno strumento. Un direttore deve saperlo accordare e valorizzare. Ma per farlo occorre un’intesa, una collaborazione. Chiedimi e ti sarà dato. Ma alla fine ti darò solo se riuscirai ad essere convincente».
Qual è il rapporto tra l’orgoglio e l’umiltà?
«Una cantante deve conoscere i propri limiti. Ma per superarli, non per adagiarvisi».
Chi l’ha fatta soffrire in particolare?
«Un direttore con cui non mi sono trovata bene fu George Prêtre. È stato un grande. Ma la grandezza si misura anche con la generosità non solo con il talento».
Perché ha deciso di andare via dall’Italia?
«Diciamo che sono stata aiutata in questa scelta che non fu facile. Tutto ebbe inizio nel 1972 con una tournée in America. Per la prima volta dopo molto tempo mi sentii libera».
Libera da cosa?
«Dal non poter decidere il repertorio. Dal subire quei direttori artistici che mi assegnavano certi ruoli e certe opere dicendomi: questo lo puoi cantare e quest’altro no. Uno sfinimento. Sentivo che la mia voce era pronta. Matura. Ricordo l’incoraggiamento e l’aiuto di Gavazzeni quando affrontai, con I Vespri, il Verdi drammatico e poco dopo Bellini con Il Pirata, opera difficilissima da cantare. D’altronde Bellini era soprattutto Norma, che è un modello insuperabile di bellezza».
Viene in mente “Casta diva” e l’interpretazione di Maria Callas.
«L’aria più bella che sia mai stata scritta. La Callas seppe darne un’interpretazione memorabile».
Con la Callas vi siete sfiorate.
«La sostituii a Edimburgo nel 1957 nella Sonnambula di Bellini. Interpretavo il ruolo di Amina. Poi incidemmo un disco assieme. È difficile parlare di lei. È difficile dire cosa ho provato negli istanti in cui l’ho vista la prima volta. Io studentessa lei già artista grandissima. Ricordo che pensai alla consistenza inattesa di una forma sospesa nell’aria. Sono stata sua grande ammiratrice. Viveva a una distanza incolmabile da tutto. E la donna, non l’artista, forse ne risentì».
Dicevamo del suo ingresso in America. Quando si stabilì?
«Nel 1975. Non furono, all’inizio, anni facili. L’integrazione fu lenta e dolorosa. L’America non accettava a cuor leggero noi italiani. Eravamo necessari. Forse i migliori nell’ambito operistico, ma nella vita normale accolti con sospetto e pregiudizio».
Non si sentiva privilegiata?
«In un certo senso lo ero. Ed ebbi anche la fortuna di incontrare James Levine. Ho avuto con lui, che ha diretto a lungo il Metropolitan Opera di New York, un rapporto eccezionale. Mi ha liberato dall’Italia e dai suoi fantasmi. Ho imparato grazie al suo talento a pensare e agire con la mia testa. Ricordo che il leggendario Rudolf Bing, manager del Metropolitan, voleva che facessi sempre Butterfly. E fammi fare qualcosa di diverso e di nuovo, gli sbottati una volta in faccia. Sono stata fortunata. Ho vinto due Emmy Award e, unica italiana, il premio “Met Legends”».
Come ha vissuto la conclusione della sua carriera?
«Con serenità. Ho sempre condotto due vite distinte: l’artista e la donna. Non ho mai confuso le due dimensioni. E oggi resta la donna che a volte insegna, consiglia ma va tranquillamente al supermercato a fare la spesa, o stira e cucina a casa. Non ho nelle mie abitazioni quasi nulla che mi rimanda al mio lavoro. Non appendo foto né esibisco oggetti. Eppure, certe volte mi soffermo a pensare ai vecchi amici. A chi c’è ancora come Riccardo Muti, straordinario e meraviglioso interprete, o chi è scomparso. Come Claudio Abbado e Luciano Pavarotti. Ricordo certe serate dopo lo spettacolo. Una cena rapida e poi seduti attorno a un tavolo da poker».
Non ci posso credere.
«È tutto vero. Luciano amava il gioco. Claudio si divertiva. E io, in mezzo a loro, mi trovavo benissimo. Spesso come quarto c’era mio marito. Era buffo vedere la mole di Pavarotti che si agitava nella poltrona rinforzata. Le carte inghiottite tra le sue mani. Le perle di sudore sulla fronte. Abbado conservava una freddezza ironica. Lieve. Apparentemente distratta. Non giocavamo grandi cifre. Era il piacere di provare un’emozione diversa. Di attesa per chi avrebbe avuto la meglio. Li ripenso con gratitudine e sorpresa. Ci sembrava di essere tornati ragazzi. Sconsiderati e felici. Di stare su una scena che non avremmo desiderato abbandonare. Il poker aveva cancellato il senso del tempo. E noi facevamo parte di quell’abbandono».
Antonio Gnoli, la Repubblica 14/6/2015