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 2015  giugno 14 Domenica calendario

ALFRED BRENDEL

MILANO
La genialità contempla una serie di variabili. C’è chi si specchia nel proprio genio con orgoglio compiaciuto (la maggior parte degli artisti geniali si muove su questo fronte); e chi invece lo vive come un umile mestiere, un servizio per la comunità, un destino da assecondare senza troppe storie. Dialogando col pianista austriaco Alfred Brendel, ci si accorge subito fino a che punto lo disturbi l’idea di essere considerato un fenomeno di genio. Cosa che in effetti è, grazie a una miscela di virtù quali l’acume, la densità culturale, una spregiudicatezza che vola in alto, la tecnica mirata e non ossessiva, l’intelligenza del repertorio, l’approccio al mondo originale ed eclettico (è scrittore, filosofo, musicologo, in gioventù è stato pittore). E in più chissà: sappiamo che in ogni spirito geniale fa sempre capolino l’ineffabile.
Ciò nonostante questo signore stralunato, che dietro i grandi occhiali da vista ha lo sguardo malinconico dei comici di successo («cerco di essere comico, ma non così di successo», dice serafico), ha fatto dell’understatement una perenne vocazione. Pensa a se stesso come a uno strumento e basta: «L’interprete è un mero tramite fra il compositore e il pubblico», osserva nel corso del nostro incontro esclusivo a Milano, una delle città in cui vive più spesso (la sua residenza principale è a Londra). «Ciò che conta, per chi suona, è rendere accessibile un pezzo».
Aggiunge che, sostanzialmente, è stato sempre più votato al rapporto con l’autore che a quello con il pubblico, «di cui non intendo sminuire la rilevanza, anzi: io nutro per il pubblico una gratitudine immensa. Ma il fatto di trasmettere qualcosa rischia di dare all’interprete un potere sulla gente che va al di là della sua funzione. E lui potrebbe gioirne fino a dimenticare qual è il suo ruolo».
Nato nel 1931 a Wiesenberg, in Moravia, appartiene alla Mitteleuropa: «La mia origine è piantata nella terra ceca, a casa si parlava tedesco, sono cresciuto a Zagabria e a Graz. Nella mia storia di ragazzo sono passati i fascisti croati, i nazisti, le sofferenze della guerra. Ricordo i bombardamenti, le voci alla radio di Hitler e Goebbels, gli ebrei con la stella gialla. Aver vissuto in quell’area d’Europa durante un periodo così terrificante ha inculcato in me un’avversione assoluta verso ogni fanatismo e nazionalismo. Ma più che un mitteleuropeo, mi definirei un cosmopolita legato a Vienna e al mondo musicale che va da Haydn a Schönberg».
Qualche anno fa ha smesso di esibirsi, chiudendo una favolosa carriera di concertista. Il che non gli impedisce di continuare a essere attivo e dinamico, pubblicando saggi (come il recente Abbecedario di un pianista , edito da Adelphi), dando profonde e spassose conferenze («Il 14 agosto», annuncia, «inaugurerò il festival musicale di Lucerna con una lecture sullo humour, che è uno dei fondamenti necessari della nostra esistenza») e dedicandosi alla cura di rassegne di film che testimoniano in modo libero e audace il suo pluriennale amore per il cinema: «Ho costruito cartelloni a tema nei festival di Vienna, Praga e Berlino. Alla Viennale il mio progetto, che riuniva titoli dagli anni Venti agli Ottanta, si intitolava Beetween Dread and Laughter , fra terrore e risata». Inoltre Brendel si applica minuziosamente alla riproposta discografica delle proprie esecuzioni: è appena uscito per la Decca un box, formato da diciotto cd, di cui egli stesso ha selezionato i brani, tracciando così una sorta di autoritratto musicale. Oltre ai concerti per pianoforte di Mozart, Beethoven e Brahms, vi ha inserito lavori di Weber, Schuman, Liszt e Schönberg. «Sono tutti pezzi che ho inciso più di una volta. Qui ho provato a scegliere le interpretazioni migliori». Il risultato è un imponente viaggio in architetture trasparenti e riflessive, il che non significa che Brendel sia un musicista “di testa”, come a volte è stato scritto: «Chi mi definisce un intellettuale pensando che in me la mente domini il sentimento, non mi rende affatto felice. Le emozioni sono irrinunciabili: tutta la musica comincia e finisce con le emozioni. Ma se non fossero filtrate non ci potrebbe essere un’opera d’arte. Ciò che conta è la qualità delle emozioni, ed è l’intelletto a sorvegliarla».
A differenza di tanti pianisti classici, ha registrato poco Chopin: come se non si fidasse. «La fiducia non c’entra», spiega lui sornione. «In ogni caso, secondo me, i Preludi di Chopin sono tra quanto di più bello sia mai stato creato. Li ammiro talmente che non li ho mai eseguiti». Tra una divagazione e l’altra risolve la questione spiegando che in pratica «ci sono due grandi scuole di pianisti: una arriva da Bach e copre il repertorio austro-tedesco, l’altra è legata a Rachmaninoff e vi compare spesso un po’ di Chopin. Io faccio parte del primo filone». Non teme di valutare Rachmaninoff «come un compositore secondario e non indispensabile. La letteratura pianistica è così straordinaria e vasta che non si può perdere tempo con cose non eccezionali».
Pur essendo un celebrato interprete del Concerto di Schönberg, scritto a inizio anni Cinquanta («l’ho suonato sessantotto volte, in diversi continenti»), Brendel non ha mai incluso musica contemporanea nel proprio repertorio, come volendo librarsi in un’epoca ben radicata nel cantabile: «Però la musica nuova mi ha sempre interessato molto. Tuttavia sono convinto che solo pochissimi pianisti possano affrontare sia il repertorio classico che quello contemporaneo. Ci vuole un talento specifico: la mia memoria è completamente salda con la musica tonale, ma misurandomi con il concerto di Schönberg, anche dopo una sessantina di esecuzioni, dovevo suonare leggendo la partitura».
Oltre che saggista, Brendel è autore di poemi pazzi e intriganti, sottilmente dadaisti, che possono evocare la sparizione delle gobbe del cammello, la guerra fra barbuti e sbarbati e lo spettacolo del fantasma di Brahms. Un libro di suoi versi ha meritato una traduzione italiana ( Un dito di troppo , Passigli). Scoprì le proprie doti di poeta in dormiveglia, durante un volo in Giappone, ed è persuaso che la poesia abbia la stoffa dei sogni: «Ogni poema che ho scritto parla essenzialmente dell’assurdità del mondo, tenendo conto che tale situazione, che ritengo certa e assodata, ha un lato comico e uno angoscioso. Meglio concentrarsi sul primo aspetto e non farsi coinvolgere dalla tragedia. Ridere è un’attività basilare. Sul versante estetico pongo il comico a un livello alto, come il tragico. Mi piace il grottesco. Alcune delle opere più importanti del Ventesimo secolo sono state concepite al limite tra il macabro e l’esilarante. Vedi le Aventures di Ligeti, il teatro di Beckett e le pièce di Ionesco». Benché sia noto il suo scetticismo, ci sono poesie in cui Brendel cita Dio, «a cui non credo. Comunque ho bisogno di un’istanza immaginaria per protestare: contro il fatto che Schubert morì a trentuno anni, e Masaccio, Keats e Bruckner morirono anche più giovani. Poi mi pare imperdonabile che una vasta fetta dell’umanità debba subire ingiustizie mostruose. La mia metafisica è soprattutto ironica. Però mi piacciono le figure degli angeli. Le trovo divertenti». Talvolta questo Buster Keaton della tastiera dall’aria mite e ciondolante sfodera un’inaspettata indole riottosa: una volta al termine di un concerto in Australia dichiarò senza complimenti al pubblico che avrebbe desiderato un’ascia per fare a pezzi il pianoforte. «Fu un’occasione estrema di espressione del mio giudizio.
Poiché anche nel bush sono reperibili registrazioni sonore di pianoforti di ottimo livello, non è possibile giustificare concerti su pessimi strumenti. Il detto secondo cui non ci sono cattivi pianoforti, ma solo cattivi pianisti, è un imperdonabile non-sense».
Leonetta Bentivoglio, la Repubblica 14/6/2015