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 2015  giugno 14 Domenica calendario

“SI CHIAMA CARNAROLI MA È UN ALTRO RISO” L’ULTIMA BEFFA DEL MADE IN ITALY

E se la smettessimo di farci del male e dessimo il via a un modo nuovo di tutelare il nostro cibo? Questa storia comincia nell’acqua, come il riso. Anzi no, perché il riso non nasce nelle risaie. Nei campi nasce il risone, ovvero il cereale che, quando viene trebbiato, presenta i chicchi avvolti nella lolla. Il riso nascerà solo dopo le lavorazioni (sono un bel po’ quelle diverse e legalmente possibili) che avvengono nelle risiere: in questi stabilimenti il risone perde il rivestimento e si trasforma in riso. Dunque il riso, propriamente, è il prodotto degli stabilimenti di trasformazione, mentre gli agricoltori producono il risone, la materia prima.
Eccoci al punto: il risone dipende dalla varietà seminata. Chi coltiva Carnaroli, produce risone Carnaroli. Per contro, il riso Carnaroli si può ricavare, legalmente, raffinando anche risone di varietà Carnise o Carnise precoce, o Karnak o Poseidone. L’escamotage si chiama omonimia: il riso venduto, per legge può essere chiamato con il nome della varietà da cui deriva il risone, oppure con uno dei nomi delle varietà che appartengono alla stessa categoria agricola. E nella categoria del Carnaroli ci sono appunto gli altri nomi di varietà (e quindi di risone) che abbiamo elencato prima. Quali siano gli abbinamenti possibili, lo stabilisce ogni anno un decreto del ministero dell’agricoltura. Il risultato finale è che la legge permette, per esempio, a chi produce riso partendo dal risone Karnak di chiamarlo, appunto, Carnaroli. Il punto è che il consumatore non sa che sta comprando una varietà di riso (Karnak) diversa da quella indicata sulla confezione (Carnaroli).
Tutto questo è legale, certo. Ma è anche giusto? Se lo sono chiesto (ed è grazie a loro che ho potuto appurare questa prassi) Beatrice Mautino e Dario Bressanini nel loro libro inchiesta Contro natura . E quando ho scoperto quanto accade ne ho potuto parlare con una risicoltrice del parco sud di Milano. Inutile dire quale sia l’umore degli agricoltori, coltivatori delle varietà rinomate autentiche. Il Carnaroli propriamente detto — intendo: dal risone al riso, dal campo alla cucina — si trova a competere con riso che si chiama nello stesso modo, ma che invece deriva dalla raffinazione di varietà diverse, per certi versi più facili da coltivare.
Pensate che sia l’Europa a chiederci questo o che siano le principali leggi nazionali sull’agricoltura a imporre un simile maquillage? No. L’Europa non ci chiede di confondere i consumatori, trasformando nelle risiere ciò che nelle risaie è qualcosa con un nome (e una natura) diverse. E il ministro dell’agricoltura non è costretto a regolare le cose in questo modo: lo fa ogni anno, ormai in forza di una lunga prassi, con il benestare di tutti coloro che possono esprimere pareri su quel decreto.
Ecco, io vorrei vedere le associazioni produttive prendere una netta posizione rispetto a questa prassi, in difesa di quei loro associati che coltivano davvero le varietà di cui, grazie alla “sinonimia legale”, si avvantaggiano i coltivatori delle varietà ignote al pubblico. Esse non hanno nulla che non vada: semplicemente non sono quello che dicono di essere. Pensateci: chi non insorgerebbero se al ristorante un cefalo fosse legalmente chiamato sugarello o la vacca limousine venduta per chianina?
È ora di smettere con le scorciatoie e dare il vero, giusto peso al diritto di scelta. Per questo non mi piace l’attuale progetto di legge sul riso che, se possibile, peggiorerà ancora le cose.
Se oggi infatti, un produttore di riso serio e attento può decidere di chiamare il proprio prodotto Karnak o Poseidone, quando derivi da queste varietà di risone, la nuova legge in discussione vorrebbe addirittura imporre la sinonimia: se il risone viene dal gruppo sui appartiene anche il Carnaroli, non potrà che chiamarsi Carnaroli. Con incredibile spregiudicatezza, insomma, si presenta tutto questo come un vantaggio per i consumatori, altrimenti confusi.
La foglia di fico di tanto scempio consisterebbe nel fatto che chiameremmo il Carnaroli vero — cioè quello dal campo al pacchetto — Carnaroli classico. Uno schema già visto, che non ci piace: per distinguere il Prosecco di pianura da quello originario, delle colline tra Asolo e Valdobbiadene—Conegliano, si usa l’aggettivo “superiore”; per distinguere l’aceto balsamico fatto mescolando aceto e mosto cotto, rispetto al prodotto simbolo di una storia millenaria, ci si affida all’aggettivo “tradizionale”.
È ora di dire basta. Non si chiama oro la patacca e oro classico il metallo prezioso: il confine tra vero e falso ancora esiste e i consumatori hanno il diritto di poterlo conoscere.
Carlo Petrini, la Repubblica 14/6/2015