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 2015  giugno 14 Domenica calendario

«CARA UDINE, L’AMORE È FINITO: HO VOGLIA DI ALLENARE»

Ricominciare. «Sì, perché mi sento ancora giovane, ho ricaricato le batterie e ho voglia di allenare. L’anno sabbatico mi ha fatto bene, credo che ogni tanto sia salutare staccare la spina». Dodici mesi dopo le dimissioni, Francesco Guidolin racconta la sua stagione senza calcio e il desiderio di rimettersi in gioco ora che il cordone ombelicale con l’Udinese è stato tagliato. Senza polemiche, con qualche amarezza ma soprattutto con una energia nuova.
Guidolin, perché aveva deciso di smettere?
«L’anno scorso avevo gestito qualche situazione in una maniera anomala per me, e non mi sono piaciuto. E’ stato un campanello d’allarme, ho capito che dovevo fermarmi. E poi c’era l’idea di fare un lavoro diverso all’Udinese, alla quale avevo promesso fedeltà. Altre volte ho rinunciato a guadagni e piazze importanti per restare, Udine era il mio posto. Avevamo programmato un lavoro diverso per me, un ruolo di consulente soprattutto all’estero. A Udine comandano i Pozzo, padre e figlio. Uno è sempre sull’Udinese, l’altro supervisiona il Watford. Ho rinunciato a tre anni di contratto e speravo di poter portare la mia esperienza a Granada, ma il progetto è fallito. A questo punto sono pronto per lavorare altrove, se troverò qualcosa che mi interessa».
Magari la grande squadra che non ha mai avuto...
«Guardi, io le grandi squadre le ho avute in Serie B e C: Palermo e Ravenna erano superiori alle altre, e in entrambi i casi ho vinto il campionato. E comunque due volte sono stato chiamato dal Napoli e due volte ho detto no per restare a Udine. Quindi, le occasioni le ho avute, ma ho fatto le mie scelte. Speravo che fossero apprezzate di più dal mio club. Adesso la questione non è tanto di blasone, di club piccolo o grande, ma di situazione giusta. A me piace insegnare calcio e credo di poter lavorare con giocatori giovani e meno giovani, ho ancora tanto da dare: un anno di pausa è sufficiente».
Che cosa ha fatto in questo periodo?
«Ho viaggiato, mi sono arricchito anche dal punto di vista culturale, ho cercato di migliorare il mio inglese e il mio francese, ho visto partite e studiato allenatori. Sono stato a vedere come lavora Guardiola, che mi ha accolto molto bene: è stata una esperienza interessante».
A Udine non l’hanno mai vista: un distacco totale.
«La riservatezza e la discrezione fanno parte del mio carattere e poi avevo capito che era meglio rimanere nell’ombra. Tante volte avrei voluto andare allo stadio a salutare i giocatori e la gente, ma ho capito che era meglio evitare».
Forse perché Stramaccioni ha passato periodi difficili e non voleva creare imbarazzo?
«Sul lavoro di Andrea non sarei così critico. L’Udinese che fa 60 punti di media in quattro anni non è la normalità, la mia Udinese arrivata in Europa quattro volte su cinque non è la regola. La misura della provincia è un’altra, e Udine è provincia. Quindi, il primo obiettivo è restare in A, possibilmente senza affanni, poi se si può si sogna l’Europa, se si riesce anche la zona Champions, ma in quel caso parliamo di capolavori, e non sempre si riesce a realizzarli. E quando si lavora in un club come l’Udinese si deve cercare di mettere in mostra a ogni stagione giocatori nuovi, giovani, ma non è detto che ci si riesca sempre. Un anno diverso può capitare».
Ha rimpianto la decisione di dare le dimissioni?
«No, perché ero stanco, e avevamo programmato per me un ruolo diverso che poi non mi è stato permesso di svolgere. Avrei fatto volentieri il supervisore alle tre squadre dei Pozzo, ma non ho potuto lavorare e adesso il patto di fedeltà non può essere mantenuto. Voglio ricominciare, ho avuto qualche contatto, aspetto. Sono ancora in condizione di poter scegliere».
Adesso va di moda l’anno sabbatico, pare. Lei che ha finito il suo lo consiglierebbe ad altri?
«Lo raccomando vivamente, perché la pressione del lavoro di allenatore logora e ogni tanto fermarsi è salutare. Se sei come Guardiola o Ancelotti, grandi allenatori che sanno di poter rientrare quando vogliono, non è neppure rischioso. Comunque lo consiglio a tutti: l’anno sabbatico è una scelta intelligente».
Un consiglio per i giovani allenatori buttati allo sbaraglio?
«Fate la vostra gavetta, fatela tutti. Io sono molto orgoglioso del mio percorso. Chi non ha un grande nome è obbligato a misurarsi in realtà piccole, ma dovrebbero farlo anche quelli che hanno un nome importante come ex giocatori. Il mestiere di allenatore è completamente diverso da quello di calciatore. Bisogna ripartire da zero e ci vuole tempo per imparare».
La cosa che le è piaciuta di più vivendo il calcio italiano da spettatore?
«La crescita della Juve. La Juve che raggiunge la finale di Champions racconta una cosa importante: il nostro sistema è indietro, eppure come allenatori e giocatori siamo in grado di fare grandi cose, e anche qualche società lo è. La Juve è avanti, lo dicevo già quando stavano costruendo lo stadio. Anche l’Udinese è avanti: è stata una fortuna per me lavorare a Udine per tante stagioni, ma credo di aver contribuito alla creazione di una mentalità giusta».
La cosa che le è piaciuta di meno?
«Il sistema calcio, che è indietro di vent’anni. Pochi progetti e tante chiacchiere».
Guidolin, lei la sua Panchina d’oro l’ha vinta tempo fa. Adesso a chi la darebbe?
«Ad Allegri che è arrivato in fondo a tutte le competizioni vincendo anche lo scetticismo che lo circondava e a Pioli per il lavoro bellissimo che ha fatto alla Lazio. Nel panorama dei tecnici italiani c’è tanto di buono».