Paolo Condò, La Gazzetta dello Sport 15/6/2015, 15 giugno 2015
«VI RACCONTO LA MIA ITALIA». PARLA LO STORICO DIRIGENTE FEDERALE VALENTINI. «LA MIA UNICA AMAREZZA CON TAVECCHIO È STATA LA TELEFONATA MANCATA A RIVA. CI È RIMASTO MALE»
Sono passati alcuni mesi da quando Antonello Valentini ha lasciato l’incarico di direttore generale della Federcalcio. La sua non è stata una separazione indolore, ma dopo 27 anni al seguito della Nazionale polemizzare in piazza sarebbe una piccineria, e Valentini è sempre stato un uomo elegante. Una sola cosa gli è rimasta davvero qui, della gestione Tavecchio-Lotito (lui la chiama così), e nell’apprenderla restiamo di sale anche noi: «Gigi Riva era a casa dal 2012, ma io e Prandelli, nella speranza che ritrovasse l’energia per accompagnare l’Italia, non lo avevamo sostituito. I nuovi dirigenti invece hanno nominato team manager Gabriele Oriali, decisione logica e comprensibile: ma si sono scordati di informare Riva, non gli hanno dato nemmeno un colpo di telefono. Si è sentito in dovere di farlo Oriali, non il presidente, e la cosa ha molto amareggiato Gigi. E quelli che gli vogliono bene».
Ha concluso la sua esperienza azzurra dopo il settimo Mondiale, quello fallimentare del Brasile, nel quale ha accompagnato l’ottavo c.t. della sua carriera, Cesare Prandelli...
«Troppo computer e poco spirito di squadra per colpa di tutti noi, me compreso. Era una Nazionale senza sentimento, mancò la fusione tra anziani e giovani. Un vero peccato perché così sono stati dimenticati i meriti di Prandelli. Il problema è che una volta in Nazionale erano tutte soubrette, i numeri uno dei rispettivi club che portavano la loro personalità in azzurro. Adesso, invece, giocano titolari ragazzi che in Serie A fanno l’ultimo quarto d’ora».
Che opinione si è fatto di Balotelli?
«L’indole di Mario è buona, come la sua sensibilità. Per farvi un esempio, quando abbiamo visitato Auschwitz lui era il più sconvolto di tutti, era commosso fino alle lacrime. Detto questo, è uno che non capisce i momenti: non si può andare a fare un nuovo taglio di capelli il giorno in cui tutti sono k.o. per l’eliminazione. Cosa vuoi che pensino di te?».
Ripartiamo dall’inizio, il suo primo c.t. fu Azeglio Vicini.
«Mi accolse come un figlio. Vicini ebbe molta sfortuna, perché il Mondiale 90 era disegnato apposta per noi».
C’è molta letteratura sulle visite per alcuni azzurri in ritiro.
«In realtà uscivano, per divertirsi lì in zona, c’erano altre strutture... Vicini a una certa ora andava a dormire, e dopo un po’ li vedevi sgattaiolare via. Cose da ragazzi, non è certo per quello che abbiamo perso il Mondiale».
Sacchi e Usa 94 sono ricordi indelebili. E ancora stancanti, giusto?
«Sacchi è stato un grandissimo. Nel quotidiano, però, era assillante: ricordo che a cena tormentava la mia pizza, spostando le olive di qua e di là per spiegarmi una disposizione tattica».
Poteva colpirlo con la forchetta.
«La tentazione c’era. In realtà chiedevo aiuto ad Ancelotti con gli occhi, e Carlo interveniva ammorbidendo. A proposito: adesso tifiamo tutti per Conte, ci mancherebbe, e dopo il pari di Spalato mi sono convinto che giocheremo un bell’Europeo. Un giorno, però, il c.t. sarà Ancelotti».
Ricorda la genesi della finale 94, con Robi Baggio in dubbio fino all’ultimo?
«Noleggiai io stesso la sala degli arazzi del nostro albergo a Los Angeles per sostenere il provino decisivo il mattino della finale contro il Brasile. Baggio calciava forte contro le pareti, sotto gli occhi di Sacchi e Ancelotti: decisero per il sì, mentre io me la diedi a gambe. Se il direttore dell’hotel avesse scoperto come usavamo la sala...».
Sacchi si dimette due anni dopo, e la Federazione sceglie Cesare Maldini.
«Tecnico molto sottovalutato. Il suo disegno tattico era meno moderno, però gli bastava uno sguardo per capire la gente, e non guardava in faccia nessuno: lo ricordo mandare in doccia Buffon oppure attaccare al muro Panucci perché, dopo aver detto in sala stampa “domani a Wembley guiderò io la difesa”, finse di star male alla notizia che sarebbe andato in panchina».
Lei ha capito perché Zoff si dimise dopo la sparata di Berlusconi?
«Dino considerò inammissibile che una figura così importante l’avesse offeso in quella maniera. Passò dal mio ufficio prima di andare a dimettersi, e io non riuscii a parlargli perché ero al telefono con Gianni Letta, a sua volta ansioso di comporre la questione senza morti e feriti. Ma Dino tirò dritto».
Lei con Trapattoni si è sempre divertito.
«Un gran casinista, ma contagioso nel suo entusiasmo. Rimase al suo posto malgrado il fallimento mondiale perché un arbitraggio come quello di Moreno è passato alla storia».
Trapattoni è stato il primo a tentare la gestione di Cassano.
«Altro buon ragazzo, ma tendi a dimenticarlo perché è esasperante. Poi, è uno sfacciato: ricordo una volta che Carraro venne a trovarci in ritiro. “Ciao presidente!” gli fa Antonio, e Carraro risponde con la sua freddezza “buonasera Cassano, come sta?”. “Puoi darmi del tu, dai”, e giù una pacca sulla spalla che quello è ancora lì allibito».
Siamo arrivati a Lippi, che ha guidato la Nazionale al suo punto più alto e non ha saputo ripetersi in Sudafrica.
«Con Marcello abbiamo avuto un rapporto di grande lealtà e rispetto reciproco, ma meno affettuoso rispetto ad altri c.t.: penso che qualche dirigente della federazione di allora, immagino Mazzini, gli avesse consigliato di tenermi a distanza. Ma alla fine ci siamo intesi, e gli sono riconoscente per la vittoria del 2006. Il punto più alto della traiettoria di tutti noi».