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 2015  giugno 13 Sabato calendario

GUERRA SUI VOSTRI DATI

Quanto valgono i vostri dati personali, diligentemente raccolti mentre navigate e fate ricerche su internet, mentre cercate il percorso per raggiungere un indirizzo o postate un commento sul nuovo acquisto di un vostro amico? Per Google 405 dollari, dato che si ottiene dividendo la capitalizzazione di 362 miliardi di dollari per i 900 milioni di utenti di una casella di posta elettronica Gmail, la chiave digitale per accedere all’intero mondo di servizi di Mountain View che comprende anche mappe elettroniche e sistemi di navigazione, software simili a Microsoft Office e il sistema operativo Android diffuso su miliardi di smartphone.
Servizi offerti agli utenti finali gratuitamente, almeno all’apparenza, cui si è aggiunta da poco anche l’archiviazione illimitata di tutte le fotografie scattate con il proprio smartphone sui capienti server di Google. Una vera manna digitale piovuta dal cielo? Non proprio, dal momento che questi servizi sono in realtà pagati sino all’ultimo cent da ogni utente, non con una valuta ufficiale ma barattati più o meno consciamente con una merce preziosissima, ovvero le proprie informazioni personali. Applicando lo stesso criterio a Facebook, il valore per utente è di 194 dollari, considerando i 274 miliardi di dollari di capitalizzazione e gli 1,41 miliardi di utenti attivi su base mensile.
Non a caso Tim Cook, ceo di Apple, ha usato parole durissime per evidenziare le implicazioni, a molti non evidenti, di questo modello di business in un recente evento dell’Electronic Privacy Information Center. «Mi sto rivolgendo a voi che venite dalla Silicon Valley, dove alcune delle società più importanti e di successo hanno costruito il loro business cullando i clienti con false rassicurazioni sulle informazioni personali.
Stanno divorando tutto quello che sanno su di voi per cercare di monetizzare. Riteniamo che sia sbagliato, Apple non vuole essere una società di questo genere», ha affermato Cook, «potrebbero piacervi in quanto servizi gratuiti, perché così si definiscono, ma non pensate al fatto che scavano nei dati della vostra e-mail, della cronologia delle vostre ricerche e adesso persino delle vostre foto personali e li vendono per sa Dio quali scopi pubblicitari. Un giorno o l’altro i clienti li vedranno per quello che sono realmente». Un attacco durissimo e neanche troppo velato a Google in primo luogo, a Facebook e agli altri social media, il cui modello di business è infatti basato esclusivamente sulla vendita di informazioni dettagliate e profilate di milioni di utenti raccolte attraverso l’offerta «gratuita» di una pletora di servizi che spaziano appunto dal software per telefonini alla posta elettronica, dalle mappe digitali alla copia di backup su server remoti delle fotografie scattate con smartphone e tablet sino alla prossima e più inquietante frontiera, ovvero i dati biometrici raccolti dai dispositivi indossabili che iniziano a diffondersi sotto forma di braccialetti e orologi intelligenti.
Il punto chiave per comprendere la propensione più o meno elevata al rispetto della privacy dei colossi della tecnologia, e non solo, è il modello di business su cui si basa ogni società.
Se si guarda ad Apple, per esempio, è facile notare come i 13,6 miliardi di dollari di utile registrati nell’ultimo trimestre sui 58 miliardi di dollari di fatturato siano legati alla vendita di dispositivi e, sebbene per una parte marginale, servizi. Il business è in particolare legato agli oltre 61 milioni di iPhone venduti nei primi tre mesi dell’anno, che rappresentano circa i due terzi del fatturato, ma nonostante la marginalità elevatissima Apple non esita a far pagare ai propri milioni di utenti servizi, come appunto il backup delle fotografie e di altre informazioni personali. Sebbene il colosso guidato da Cook non avrebbe certo problemi di bilancio a offrire uno spazio di archiviazione cloud gratuito ai propri utenti, preferisce invece mettere a disposizione senza costi aggiuntivi 5 Gb di dati, ormai pochi per contenere centinaia di foto e video ad alta definizione, mentre è necessario pagare 0,99 euro al mese per espanderlo a 20 Gb, 3,99 euro per arrivare a 200 Gb e 9,99 euro per 500 Gb, sufficienti per avere una copia di tutti dati tipici di un computer. Denaro che Google, generosamente, non chiede ai propri utenti nonostante non ricavi nulla dalla vendita di dispositivi o servizi.
Una scelta, quella di Apple, che farà sicuramente felici gli azionisti della società fondata da Steve Jobs, ma che evidenzia anche la sua coerenza con un modello di business basato sulla vendita di beni e servizi a livelli sostenibili, e senza quindi scambi più o meno occulti con altri beni, come la privacy e le informazioni personali. Non a caso nei dispositivi Apple è possibile limitare la raccolta di informazioni pubblicitarie con un solo tasto, valido per ogni tipo di app che verrà poi installata dall’utente. Una scelta quindi coerente che Apple ha applicato a tutti i propri servizi, compreso il sistema di pagamenti elettronici tramite smartphone Pay che, dopo il debutto negli Stati Uniti alla fine dello scorso anno, si prepara a sbarcare in Uk a luglio per arrivare poi in tutta Europa nei prossimi mesi. Apple Pay permette di effettuare il pagamento di beni fisici semplicemente avvicinando iPhone 6, o Apple Watch, alla cassa del negozio sfiorando il sensore per il riconoscimento dell’impronta digitale per importi superiori ai 25 euro.
Alla base del successo del servizio, che ha visto oltre un milione di carte di credito registrate nelle prime 72 ore dal lancio, c’è stata anche l’attenzione alla privacy. «Apple non raccoglie i dati relativi alla cronologia degli acquisti, perciò non sappiamo che cosa comprano gli utenti, dove acquistano o quanto hanno pagato», ha sottolineato Eddy Cue, senior vice president internet software e servizi di Apple nel corso della presentazione del servizio. Esattamente i dati cui mirano invece società come Google, Facebook e da poco anche Pinterest e Instagram per creare profili sempre più precisi e personalizzati da vendere poi a inserzionisti o altre società interessate. E proprio il fatto di non sapere a chi saranno venduti i propri dati, insieme all’estensione delle informazioni raccolte, costituirà sempre più un punto fondamentale per le stesse scelte di acquisto dei consumatori.
Se infatti le abitudini di navigazione e le foto dei propri familiari sono innegabilmente informazioni personali e riservate, quelle relative al battito cardiaco, alle ore di sonno e ai passi percorsi lo sono ancora di più. Un improvviso e duraturo picco della frequenza cardiaca in tarda serata durante una trasferta di lavoro potrebbe infatti essere legato alle preoccupazioni per un importante appuntamento la mattina successiva, ma potrebbe anche essere interpretato in modo diverso e malizioso. L’unica certezza, indossando la nuova generazione di braccialetti e orologi intelligenti che stanno già facendo la loro comparsa nei negozi, è che ogni singolo battito, movimento e minuto di sonno verrà registrato, analizzato da software sempre più evoluti e conservato in qualche server. Anche in questo caso, e a maggior ragione, è fondamentale quindi comprendere bene i modelli di business delle società produttrici dei dispositivi e di quelle che gestiscono i dati. Società come Fitbit, produttrice di braccialetti intelligenti come la serie Charge e che si prepara a sbarcare a Wall Street con oltre 20 milioni di dispositivi venduti, possono, come Apple, contare su di un modello di business perfettamente sostenibile, legato alla vendita dei prodotti, e sono quindi più che rispettose della privacy dei propri clienti, i cui dati sono non solo conservati in modo cifrato e analizzati solo in forma anonima, ma soprattutto non sono condivisi con nessun soggetto terzo. Diversa la situazione degli orologi intelligenti basati su Android Wear, la versione del sistema operativo di Google per dispositivi indossabili, il cui sviluppo per il colosso di Mountain View è solo un centro di costo, essendo offerto gratuitamente ai produttori hardware. Come rientrerà Google da questi costi? Una domanda che, sempre più spesso, si stanno facendo a Bruxelles anche le autorità europee.
Davide Fumagalli, MilanoFinanza 13/6/2015