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 2015  giugno 13 Sabato calendario

IL DOPPIO GIOCO DEGLI USA

Le elezioni presidenziali americane si avvicinano a veloci falcate, e si prepara il terreno di gioco. Ancora una volta il globo sembra la scacchiera su cui si confrontano Aquila e Toro, le metafore del potere americano. In fondo, il candidato di ciascuno dei due schieramenti non sarà che l’interprete di interessi ben distinti e alternativi tra loro: i Repubblicani sono concentrati sul controllo territoriale, dove la sponda militare e quella petrolifera si spalleggiano a vicenda condividendo lo stesso obiettivo; i Democratici invece si focalizzano sul versante economico e la gestione dei flussi finanziari globali.
Al solitario gendarme del mondo, che impersona la visione dei Repubblicani e l’unilateralismo politico e militare dell’unica superpotenza globale, fa riscontro una visione democratica in cui la globalizzazione economica e ora quella finanziaria sono un analogo strumento di dominio.
Intanto nel mondo si rimescolano le carte: la crisi del debito greco scantona da una scadenza all’altra; le tensioni in Ucraina non si placano, anzi si prospettano nuove sanzioni alla Russia; anche la Macedonia è coinvolta in disordini provocati da minoranze, forse perché ha accettato di far passare sul territorio il Turk Stream (nuovo nome del South Stream); il conflitto in Siria si dipana senza storia, come nelle guerre di posizione di inizio Novecento; la Gran Bretagna annuncia un referendum sulla permanenza nell’Ue; le migrazioni dall’Africa verso l’Europa proseguono inarrestabili.
Sembrano le quinte di un palcoscenico: solo la visione d’insieme, da oltre Atlantico, sembra dare correlazioni plausibili.
Il recente G7, tenuto in Germania, ha indicato in modo plastico le nuove frontiere del mondo, con il Preambolo che inneggia ai «valori condivisi» dai partecipanti, e soprattutto la priorità dell’Amministrazione democratica Usa: unire questo Occidente in una nuova globalizzazione che escluda da un lato la Russia e dall’altro la Cina. La Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership) renderebbe del tutto residuale la funzione regolatoria dell’Unione europea, soprattutto in campo finanziario e assicurativo. Se varrà il principio del mutuo riconoscimento e la libera operatività, senza limitazioni e interferenze da parte degli Stati aderenti al Trattato, la normativa europea non potrà che essere recessiva rispetto a quella Usa. In questi termini, è facile spiegare il nesso tra il disinteresse di Londra per l’Ue e l’appetibilità del Ttip: mentre non deve soggiacere a Bruxelles, le si aprono infiniti mondi.
L’Unione politica europea, cui si devolverebbe la residua sovranità nazionale al fine di assicurare l’effettiva adozione delle riforme strutturali, diverrebbe un organismo di vigilanza sui conti pubblici e sugli squilibri macroeconomici, come lo è stato finora il Fmi a livello mondiale. Si ritorna al Comitato finanziario della Società delle Nazioni, dove al posto della Gran Bretagna si installa la Germania: prima si dovevano difendere gli investimenti in sterline, ora la stabilità dell’euro. L’area transatlantica, regolata dal Ttip, legherebbe definitivamente e indissolubilmente l’Europa agli Usa, doppiando il quadro dell’alleanza Nato.
Dall’altra parte del globo si svilupperebbe l’area transpacifica, a sua volta regolata dalla Tpp (Trans Pacific Partnership), che legherebbe tutti i Paesi dell’area a esclusione della Cina. Si vellicano, chissà se inconsciamente, le storiche ambizioni delle potenze regionali. In Europa, la Germania ha sempre guardato a Est: per attingere alle risorse agricole dell’Ucraina che sarebbero state indispensabili per vincere il Primo conflitto mondiale, e a quelle petrolifere delle aree del Caspio nella Seconda guerra. Di converso, il Giappone non sarebbe certo contrariato da un ridimensionamento del potenziale globale della Cina, magari ricordando ben altri e più favorevoli rapporti di forza. È un’illusione per entrambi: Francoforte e Tokio sono piazze finanziarie destinate a essere assorbite rispettivamente da Londra e New York, mentre le loro economie reali perderanno il supporto decisivo dei rispettivi sistemi bancari, che fin qui hanno funzionato da inestricabile kombinat. La posta in gioco è la gestione degli attivi che Germania e Giappone hanno accumulato con gli avanzi commerciali strutturali: sarà un processo analogo alla disintermediazione in corso del risparmio italiano, che viene progressivamente gestito tramite i fondi, dall’estero e sull’estero. In questo scenario, mentre la Cina contrappone la Ftaap (Free Trade Area of the Asia-Pacific) e la creazione di una Banca di sviluppo dei Brics, la Russia erode le posizioni occidentali nel Mediterraneo, sostenendo economicamente e militarmente l’Egitto, accordandosi con Cipro sulla concessione di una base navale militare, offrendo alla Turchia l’approdo di quello che era il South Stream. Insieme, infine, Russia e Cina hanno svolto manovre militari navali congiunte nel Mediterraneo: mai successo prima d’ora. La destabilizzazione di tanti scacchieri offre occasioni per incursioni inattese.
Allo stesso modo, la questione ucraina, e in modo ancora appena percettibile quella macedone, si leggono alla luce del contenimento della Russia, in un’ottica che potrebbe essere guidata dall’obiettivo di mettere in difficoltà i futuri candidati repubblicani alle presidenziali. L’amministrazione democratica in carica è stata sovente accusata di aver dilapidato, con il ritiro delle truppe da Afganistan e Iraq, i tanti anni di impegno militare e i molti miliardi di dollari profusi dalle Amministrazioni Bush. Ma adesso tiene il punto fermo, soprattutto verso la Russia: sarà un bel problema conquistare il consenso dei cittadini Usa rilanciando ancora sul riarmo e la necessità di tornare a intervenire militarmente all’estero. Una politica di confrontation con la Russia richiederebbe impegni finanziari assai invisi agli elettori, mentre ogni crisi locale si lega a un’altra: intervenire per risolvere un conflitto, dalla Siria alla Libia, avrebbe ripercussioni anche lontane. L’Isi, con il suo modello di franchising territoriale, farebbe da detonatore per risonanza. Chi avesse voluto rendere la pariglia ai Repubblicani, a tanti anni di distanza dal 2008, non avrebbe potuto escogitare di meglio: allora erano loro a essere ben consapevoli della difficoltà di far eleggere un loro candidato. La speculazione sui prezzi del petrolio e il rialzo dei tassi di interesse crearono una miscela esplosiva per le famiglie americane: la crisi dei mutui sub-prime aveva bisogno solo di un innesco. Il presidente democratico ricevette così un’eredità pesantissima da gestire, dal doppio fronte, interno ed esterno. A parti invertite, ora la sfida per un presidente repubblicano sarà davvero ardua: l’economia americana non tollererebbe altri deficit di bilancio e neppure i cittadini accetterebbero altri aumenti di imposte; si dovrebbe riconquistare il controllo di interi scacchieri, dalla Libia all’Egitto, che erano stati acquisiti mentre ci si accingeva agli interventi in Afghanistan e Iraq. Territori, anche questi, ormai compromessi. Per i Repubblicani, è un tavolo di bridge: già nella campagna elettorale dovranno dichiarare il gioco e le prese.
I Greci, nel loro piccolo, giocano alla perfezione la partita sul debito pubblico insostenibile: applicano la lezione tedesca. La Germania è stata maestra nel non pagare i debiti verso l’estero, sfruttando sempre la congiuntura politica internazionale a proprio favore. Non pagò che la prima rata delle riparazioni imposte con il Trattato di Versailles, facendosi per di più finanziare da Wall Street: una beffa. Gli Usa e la Gran Bretagna non potevano tollerare uno strapotere francese nel continente e la politica di appeasement di Chamberlaine verso la Germania ne fu la riprova. Di più, c’era il pericolo di un’estensione della rivoluzione comunista, dilagata in Russia: se la Germania ne fosse stata travolta, sarebbe stata la fine. Nel ’53, la Germania si fece abbonare ancora una volta una bella quota dei prestiti contratti tra il 1919 ed il 1939, senza che delle riparazioni residue della Prima Guerra Mondiale e dei danni causati con la Seconda Guerra si facesse alcun cenno: andava puntellata, dagli Usa, in funzione antisovietica. I Greci lo sanno: un loro default segnerebbe la fine dell’irreversibilità dell’euro e trasformerebbe l’intera impalcatura messa in piedi dopo la crisi del 2008, dall’Omt all’Esm, in una tragica barzelletta. Non hanno fretta: sono i creditori, dal Fmi alla Bce, a dover fare concessioni continue, seppure impercettibili, se non vogliono perdere l’intera posta, per la verità già persa.
L’Italia, uscita assai malconcia dalla crisi del 2011, recita un ruolo marginale. Ha perduto il vantaggio strategico concesso a ottobre 2013 al governo Letta in occasione della visita a Washington, quando fu palese l’appoggio di Obama a una nostra iniziativa militare-umanitaria nel Mediterraneo, per evitare che divenisse un mare di morte, e in relazione all’obiettivo di nation building in Libia. Abbiamo subito ceduto alla tentazione di ottenere la solidarietà europea per condividere i costi e l’ospitalità dei richiedenti asilo, cancellando inopinatamente l’iniziativa Mare nostrum che era guidata dalla nostra Marina, senza ottenere alcun risultato. L’Ue si è confermata del tutto inadeguata a gestire crisi internazionali: quando si ricorre a Bruxelles si rinuncia all’esercizio delle proprie prerogative politiche senza poterle poi riprendere una volta che questo passo è stato compiuto. Noi pensiamo che sia il pozzo di San Patrizio per ricevere risorse ed aiuti, ma è solo il buco nero della sovranità nazionale. Prova ne sono le proposte avanzate di recente, in vista di un rafforzamento politico dell’Unione: è del tutto irrealistica l’idea di varare un sistema di diritti sociali come contenuto sostanziale della «cittadinanza europea», per di più rafforzata dall’introduzione di un sistema di assicurazione contro la disoccupazione per attenuare gli effetti della congiuntura nei Paesi che adottano le cosiddette riforme strutturali. Si ipotizza la costituzione di un fondo finanziato almeno in parte dalla messa in comune di risorse già destinati a queste finalità assistenziali, cui di volta in volta si attingerebbe secondo le necessità: su questo, la Germania di Angela Merkel e il premier britannico David Cameron sono stati chiari, e non da ora. La risposta sarà: bene per i livelli di assistenza, ma ognuno paghi per sé. In politica ciascuno bada cinicamente ai suoi interessi, difendendo i suoi cittadini, le sue imprese e la sua sfera di azione. Tutto il resto è poesia. Già, l’Italia, un popolo di poeti
Guido Salerno Aletta, MilanoFinanza 13/6/2015