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 2015  giugno 13 Sabato calendario

RINALDI AMICO FRAGILE E DIRETTORE IN GUERRA CON IL POTERE

Spesso, quando la redazione dell’Espresso si spopolava per la pausa pranzo entravo nella sua stanza, accanto alla mia, per fare due chiacchiere. È successo così per anni e anche dopo, lui non più direttore a causa della malattia, continuammo a sentirci ogni giorno con la rituale telefonata quotidiana, senza contare la partita della Roma in tv che ogni domenica, cascasse il mondo, guardavamo insieme. Eppure, prima del suo arrivo a via Po nel febbraio 1991 non c’eravamo mai incontrati e il nostro primo contatto non fu neppure felicissimo. Mi spiegò che non avrei avuto spazio nel nuovo organigramma operativo e sarei diventato, in pratica, un vicedirettore senza potere. “Ma potrai scrivere se vuoi”, aggiunse con un lampo negli occhi, e mi sembrò un contentino beffardo che mi fece vieppiù incazzare. Mi sbagliavo: furono anni formidabili e sotto la sua direzione, dopo tanto tempo, tornai a sentirmi un giornalista felice.
Oggi, però, se ripenso a Claudio penso all’amicizia. Che resta un sentimento inspiegabile: uno che sa tutto di te e gli piaci lo stesso. Io di Rinaldi sapevo ciò che si tramandava tra le iene dattilografe del nostro mondo. Genio e regolatezza. Mente criminale. Acido fosforico, Plagiator cortese. Direttore­record di tutti e tre i news­magazine italiani, l’Europeo, Panorama, l’Espresso. Formula bomba. Grandi questioni, piccoli dettagli. Disincanto. Ironia. Ma quando ci vuole, calci negli stinchi agli avversari. Cura maniacale dei testi. Artigiano delle didascalie.
Sogno segreto: il giornale scriverlo e impaginarlo tutto da solo. Regola uno: senza un nemico il vero giornalismo deperisce. Regola due: Dio e il diavolo sono nei particolari. Regola tre: non si fanno sconti a nessuno. Giocava allo stesso tavolo di poker con Jas Gawronski, portavoce a Palazzo Chigi di quel Cavaliere che il giorno dopo regolarmente tornava a massacrare. Regola quattro: se so una cosa la pubblico; a costo di epiche litigate con amici e colleghi che si sono lasciati sfuggire la chicca. Regola cinque: chi si esprime bene, pensa bene (prima che lo dicesse Nanni Moretti). E dunque, disprezzo per gli sciatti, i superficiali, gli approssimativi. Rinaldi è stato il primo in un giornalismo di belli addormentati – cauto, soppesato, un colpo al cerchio e uno alla botte, non si sa mai nella vita –, il primo a capire, in anticipo perfino su Berlusconi, che Berlusconi si sarebbe dato alla politica. Sull’uomo di Arcore raccontava storie divertenti.
La mattina che deve intervistarlo per Espansione (siamo nel 1977), Claudio trova sul pianerottolo della casa dove abita 17 casse di vino, per un totale di 204 bottiglie. Nettare delle Terre Rosse, riserva speciale Silvio Berlusconi: così era scritto sull’etichetta. Un gesto propiziatorio tipico del personaggio. Poi, siamo nell’83 o nell’84, le reti Fininvest sono state oscurate dai pretori e una sera, molto tardi, Rinaldi è a Roma davanti all’edicola di piazza Colonna ad aspettare la prima edizione dei quotidiani. Da un’auto scendono Berlusca e Fedele Confalonieri. “Lo vidi avvicinarsi. Lui mi fece un segno di saluto. Mi colpì la sua espressione frastornata e il fatto che fosse incredibilmente basso, probabilmente non aveva ancora le scarpe con il tacco rialzato. Mi venne spontaneo dargli una pacca sulla spalla e benché non fossi in nessuna familiarità mi uscì una battuta: ‘Siamo al buio, eh…’. Lui non apprezzò affatto, mi guardò con occhi sbarrati e colorito terreo e sgusciò via”.
Il terzo incontro, il più significativo, all’inizio del 1990 quando Berlusconi s’impadronisce della Mondadori e caccia Rinaldi dalla direzione di Panorama. Senonché al momento del congedo, nell’accompagnarlo fuori dall’ufficio, il nuovo padrone tira fuori il libretto degli assegni e dice: beh, comunque dottore, se lei vuole rimanere agganciato al nostro gruppo con una consulenza, io ne sarei felice. L’uomo è fatto così, vuole tenere agganciati tutti. Oltre che dallo scontro cruento con Berlusconi, quei nostri anni all’Espresso furono segnati dalla guerra fredda con Massimo D’Alema.
Lo definiva un primo della classe, un po’ saccente e non attraversato da grandi passioni. Poi, dopo vari screzi, un pranzo riconciliatorio durante il quale un leader Maximo scoppiettante dice che Giampaolo Pansa (allora condirettore dell’Espresso) non capisce niente di politica e che Romano Prodi (candidato premier dell’Ulivo che lui stesso aveva indicato) ne capiva meno di Pansa (che forse agli occhi di Spezzaferro aveva il torto di essersi inventato Dalemoni, il mostro dell’inciucio a due teste). Di episodi così ce ne sarebbero da riempire un libro, ma nei nostri conversari non parlavamo quasi mai di politica o di giornali. Se non per innaffiare del suo arguto cinismo il paesaggio circostante: “Il giornalismo è un mestiere basato sulla chiacchiera, chiacchieriamo meglio di chiunque altro. Siamo una generazione aggressiva e disincantata che, coerente al primato della chiacchiera, ha occupato in massa i giornali”.
Mai un accenno al male che lo consumava lentamente. Un giorno notai che pur non essendo mancino teneva la biro (con cui correggeva perfino le virgole) con la mano sinistra non rassegnandosi a non potere usare più la destra. Una volta (e poi mai più) mi parlò del momento della rivelazione. Guidava una spider verso il Casinò di Campione con un bel gruzzolo in tasca quando tac le sue dita non riuscirono più a stringere la leva del cambio. Fino a un istante prima era un giovane uomo all’apice del successo, un giornalista potente, ammirato dalle donne e tutto andavabene. Mi manca il suo pessimismo vigile: quando la Roma vinceva tre a zero a cinque minuti dalla fine e lui ancora riusciva a dubitare della vittoria. O quando gli raccontavo del Fatto nascente, e lui prima scuoteva la testa (“Una cosa senza capo né coda”) e poi m’incoraggiava ad andare avanti. Mi mancano le sue domande impreviste sulle donne per poi accennare a un misterioso romanzo che stava scrivendo e che un giorno, chissà, mi avrebbe fatto leggere. Mi manca un amico a cui telefonare.