varie 13/6/2015, 13 giugno 2015
ARTICOLI SULL’AGGRESSIONE COL MACETE SUL TRENO A MILANO
PAOLA FUCILIERI, IL GIORNALE –
STACCANO UN BRACCIO AL CAPOTRENO. ARRESTATI DUE LATINOS -
Li cercano e li troveranno. Forse nelle prossime ore, più probabilmente nei giorni a venire. Quel che è sicuro, però, è che il cerchio su questa brutta storia si chiuderà (e in fretta) con gli arresti dell’intero gruppo di sette giovani sudamericani, tra cui una donna, che giovedì sera poco prima delle 22 si trovavano sul treno S14 del passante ferroviario proveniente da Expo e sul quale, a colpi di machete, è stato ferito gravemente al braccio sinistro Carlo Di Napoli. Il controllore 32enne, marito e padre di una bimba di 5 mesi, ha rischiato di perdere l’arto per aver fatto il suo lavoro, chiedendo ai ragazzi di vedere i biglietti e scatenandone la furia. Accanto a lui un collega 31enne fuori servizio, ha tentato di arginare la violenza degli aggressori e ha finito per rimediarci un fortissimo trauma cranico. Di Napoli è stato sottoposto a un’operazione chirurgica durata oltre otto ore all’ospedale Niguarda. Pur subendo una sub-amputazione, i medici sperano di fargli recuperare la funzionalità del braccio, permettergli così, come ha chiesto l’uomo al suo risveglio, di «riabbracciare» la figlioletta. Il collega, invece, resta sotto osservazione al Fatebenefratelli.
Il segnale forte e inequivocabile sul tenore di quest’inchiesta a tambur battente lo ha già lanciato ieri pomeriggio la squadra mobile di Milano. Che, dopo un interrogatorio durato una notte e un giorno, ha arrestato per tentato omicidio i due giovani sudamericani - Josè Emilio Rosa Martinez, un salvadoregno 19enne regolare e un ecuadoriano clandestino di vent’anni, Jackson Jahir Lopez Trivino, meglio conosciuto come Peligro - già fermati e portati in questura giovedì sera dalle pattuglie delle «Volanti» che li avevano trovati in fuga, sanguinanti e ubriachi di vodka intorno alla fermata del passante ferroviario di Villapizzone, dov’era avvenuta l’aggressione, alla periferia nord ovest della città. Il salvadoregno è stato riconosciuto come il giovane che ha materialmente impugnato il machete che teneva nei pantaloni per poi accanirsi sul povero Di Napoli. Gli investigatori lo hanno stabilito guardando e riguardando i filmati, fortunatamente piuttosto nitidi, ricavati dal sistema di telecamere che sul treno e sulla banchina della stazione hanno «immortalato» le azioni criminose e la fuga del gruppetto. Alla visione dei filmati, però, si sono accompagnati veri e propri riconoscimenti. Durante uno di questi sia Di Napoli che il collega hanno riconosciuto senza ombra di dubbio il ragazzo del machete e un suo complice.
Sull’appartenenza degli arrestati a una pandilla (banda, in spagnolo) - vere e proprie gang sudamericane composte da giovanissimi adepti armati fino ai denti ma che fino a oggi a Milano si erano fronteggiate sempre e solo tra loro - gli investigatori fino a ieri pomeriggio si erano tenuti ancora un sottile margine di dubbio, riservandosi ulteriori accertamenti. Tuttavia è emerso che uno degli arrestati, cioè Peligro, era stato coinvolto nell’operazione «Mareros» del 2013 che portò all’esecuzione di due ordinanze di custodia cautelare emesse nei confronti di 25 soggetti, di cui 7 minorenni, per la maggior parte salvadoregni, affiliati all’associazione alla pandilla degli MS13. In realtà, però, è l’utilizzo del machete che taglia la testa al toro sulla totale responsabilità di una gang latino americana in questa brutta storia. «Un sudamericano qualunque non andrebbe in giro con addosso un’arma simile» ha spiegato ieri un investigatore.
Gli MS13 (la sigla sta per «Mara Salvatrucha» che tradotto significa letteralmente «gruppo di furbi salvadoregni») a Milano si muovono tra le zone di Romolo, piazzale Maciachini, a Corsico, ma anche tra Mac Mahon e la Bovisa, cioè proprio nell’area dove giovedì si è verificata l’aggressione.
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BENNY CASADEI LUCCHI, IL GIORNALE 13/6/2015
NOI, PRIGIONIERI DEL PRIMO VAGONE, OGNI SERA RISCHIAMO LA PELLE -
È una forma di prigionia. Volontaria e necessaria. Nessuno obbliga me e gli altri come me. A costringerci è solo quel caro e vecchio amico di nome buon senso. Io mi autorecludo due volte al giorno: la mattina e a tarda sera. La mattina quando mi imprigiono in scelte che altrimenti non farei e decido come vestirmi e che cosa portare in treno; e la sera quando individuo con cura il vagone su cui salire. Sembrano cazzate. Sono invece un’assicurazione sulla vita.
Mi presento: sono uno dei prigionieri del primo vagone. Quei pendolari sfortunati al contrario che a causa degli orari non troveranno mai corridoi affollati bensì praterie di posti liberi a sedere. Siamo i pendolari dalle 21 e 30 in poi. Quelli solitari che ogni sera e ogni notte sfilano di fretta davanti a certe facce e certa gente all’entrata delle stazioni milanesi. Quelli che come minatori del terzo millennio scendono lungo il tunnel che collega la fermata del metro di Porta Venezia alla banchina sotterranea del Passante e per compagnia hanno l’eco dei propri passi sulle piastrelline con le cicche spiaccicate. Quelli che camminano inquietati come il ragazzino di Shining, il film, che pedalava sul triciclo lungo i corridoi vuoti di un hotel da brividi pieno di spaventi.
Anche noi prigionieri del primo vagone abbiamo un corridoio pieno di spaventi. È quello che ogni sera imbocchiamo ripensando alla bontà delle scelte fatte al mattino. Felici per essere riusciti anche quel giorno ad avere addosso cose e vestiti che non diano troppo nell’occhio. Felici per esserci detti no, l’orologio nuovo resta a casa; no, macché borsa di pelle, meglio quella telata e rovinata e scolorita; no, fra il tablet mezzo scassato e l’ultrapiatto prendiamo il primo che se lo fottono non ci piangiamo sopra e magari neppure ce lo fottono perché fa schifo anche a loro. A quella certa gente con quelle certe facce.
In fondo al tunnel di Porta Venezia si svolta a destra sfilando il cabinotto che non ho mai capito se sia dell’Atm o di Trenord. Dietro ai vetri oscurati che lo fanno sembrare un fortino sta asserragliato un tizio che se ne guarda bene dal mettere la testa fuori. Lo capisco. Farei lo stesso. Dopo un certo orario, tenere la porta aperta proprio lì, nel tunnel in mezzo al niente, è come spalancare le finestre del salotto di casa con l’argenteria sul tavolo e partire per le vacanze. Dopo il cabinotto la discesa prosegue per le scale. Una lunga infilata di gradini che sbocca sulla banchina della galleria principale dove transitano i treni per Bovisa, Novara, Lodi, Treviglio, Varese, Gallarate. C’è tutta la Lombardia, Expo compreso.
Ci siamo. È arrivato il momento della scelta più importante: quella che mi e ci porta alla volontaria reclusione nel primo vagone sperando non sia già pieno di altri prigionieri. Altrimenti bisogna rimediare ospitalità altrove. Più distanti, più lontani, più insicuri. È in quegli istanti che gli occhi iniziano a scorrere i finestrini per memorizzare in fretta i fermi immagine che arrivano dai vagoni successivi. Occhi che setacciano tra le facce della gente per capire se ci sono anche quelle di certa gente. Se invece nel primo vagone sono liberi i primi posti, quelli attaccati alla cabina del macchinista, allora è fatta. Sono una manciata e valgono la prima fila al concerto di Vasco. Nove volte su dieci siede lì anche il controllore. Nove volte su dieci dopo poco si chiude dentro la cabina del macchinista al sicuro dietro la porta blindata. Spesso è una ragazza. E mi chiedo sempre come diavolaccio venga in mente di mettere a quell’ora una donna di turno sui treni. Fatto sta, loro si sentono più sicuri dietro la porta. E noi ci sentiamo più sicuri accanto alla porta. Siamo tutti vicini. Prigionieri alla stessa maniera. Se non altro, se poi arriva certa gente con certe facce, possiamo bussare, picchiare, urlare, sperare che qualcuno ci faccia entrare o chiami via radio la polfer.
L’altra sera ero sul treno successivo a quello della gang con il machete. Dopo mezzora fermi in mezzo al niente ad aspettare di ripartire ho picchiato forte su quella porta blindata. Volevo capire. È uscito il controllore. «Siamo fermi perché ci sono le ambulanze a Villapizzone. Hanno accoltellato due miei colleghi» mi ha detto lei. Bianca come un lenzuolo.
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DAVIDE MILOSA, IL FATTO QUOTIDIANO 13/6/2015 –
LE GANG LATINE SU MILANO –
La sera dell’11 giugno il capotreno Carlo Di Napoli, 32 anni marito e padre di una bimba di cinque mesi, sta sul convoglio che dal sito di Expo corre veloce verso Rogoredo. Linea suburbana S14 creata apposta per l’Esposizione universale. Con lui un collega che ha quasi terminato il turno. Poco dopo le 21. Negli stessi minuti in un parco vicino alla stazione Certosa un gruppo di sudamericani fa serata con fiumi di vodka. Sono una decina di persone, quasi tutti di origine salvadoregna. C’è anche una ragazza. Alcuni di loro si portano dietro una vita balorda. Qualcuno è clandestino, altri sono affiliati agli MS13, gang latina nata in America centrale e che l’Fbi considera la “pandilla” più pericolosa al mondo. Destini lontani quelli di Carlo e dei latinos.
Il tempo, però, accorcia le distanze. E così alle 21.50 di mercoledì, quando il treno arriva alla stazione di Villapizzone, Carlo decide di fare il suo mestiere. Chiede il biglietto a quei ragazzi alterati dall’alcol. Sono appena saliti. Su dieci solo uno ha pagato la corsa. Ora il tempo scorre rapido. Il gruppo dei latinos si dilegua. Restano in quattro. Carlo insiste. Dovrà farli scendere e compilare il verbale. Basta questo: la minaccia di una multa. E uno dei quattro estrae dai pantaloni un machete e lo colpisce al braccio. Il colpo è terribile. Carlo sanguina. I latinos fuggono. Il suo collega, ferito anche lui, si sfila la cintura e tenta di bloccare l’emorragia. Portato in codice rosso all’ospedale Niguarda, Carlo non perderà l’uso del braccio grazie a un’operazione di otto ore. Mentre il capotreno è sotto i ferri, in via Edoardo Moneta vicino al ponte Martin Luther King la volante Comasina bis ferma due salvadoregni.
Sono giovanissimi e hanno i vestiti imbrattati di sangue. Dopo l’aggressione sono fuggiti verso i campi di via Negrotto. La polizia li accompagna in Questura per identificarli. In via Fatebenefratelli ci restano per oltre dodici ore. Fino a che nella serata di ieri i lunghi interrogatori danno i frutti sperati. Le risposte di uno dei due chiariscono il quadro definendo dinamica e protagonisti dell’aggressione. E così per entrambi scatta l’arresto con l’accusa di tentato omicidio. Si tratta di Jackson Jahir Lopez Trivino, 20 anni irregolare, e di José Emilio Rosa Martinez 19 anni che la squadra Mobile considera l’esecutore materiale dell’aggressione. Sarà proprio Martinez, già padre di un figlio, a fare dichiarazioni di responsabilità spiegando la modalità della violenza e di averlo fatto per difendere i propri compagni.
Trivino, invece non ha risposto. Il suo, però, è un nome noto agli archivi di polizia visto che nel 2013 viene coinvolto nell’operazione Mareros sull’associazione criminale MS13. Nel comunicato di allora la polizia scrive: “La gang, conosciuta anche come Marasalvatrucha è nata in America centrale, ed è considerata come la più pericolosa al mondo”. L’inchiesta Mareros svela dinamiche e interessi della gang. Tutti gli affiliati devono seguire alcune regole racchiuse nel “codice della Mara” che prevede anche le iniziazioni. Si tratta di rituali violentissimi che per le donne prevedono lo stupro.
Violenza inaudita, dunque. Che due giorni fa ha colpito Carlo Di Napoli. “Ho avuto molta paura, ma ora mi sento più sollevato: la cosa più importante è che potrò riabbracciare la mia bimba”. Queste le sue parole dopo l’intervento. “Avevo intuito che c’era una situazione strana e per questo ho chiesto al mio collega se poteva stare ancora con me”. Durante l’aggressione con il machete Carlo si è difeso con un braccio. Movimento che ha evitato conseguenze se possibili peggiori. Da qui l’accusa di tentato omicidio. Su Facebook la moglie ha scritto: “Questa è la notte più brutta e lunga della mia vita, mio marito è una roccia anzi la nostra roccia!”. All’ospedale Niguarda ieri si è presentato anche il governatore Bobo Maroni che ha commentato così il fatto: “Chiederemo di mettere i militari e la polizia per contrastare questi fenomeni. Voglio qualcuno che impedisca queste cose e se è necessario spari”. Intanto l’inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Alberto Nobili e dal pm Lucia Minutella, prosegue per identificare almeno altri due latinos. Al momento la polizia sta lavorando su alcuni nomi.