Paola Zanuttini, il venerdì 12/6/2015, 12 giugno 2015
RITRATTI DI NAZISTI SCONFITTI
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La serra con ciclamini del titolo è quella che un tedesco senza una gamba ha riattato nella villa (anzi, lo Schloss) di una dinastia di fabbricanti di matite, requisita per ospitare i giornalisti che seguono il processo di Norimberga. Nella Germania anno zero manca tutto, ma il giardiniere mutilato riproduce i tuberi e impianta il suo surreale commercio di fiori con una dedizione ossessiva e incurante della Storia. Nella serra linda e ordinata dove le atroci rivelazioni sul nazismo uscite dal tribunale non arrivano a turbarlo, lui zompetta sulle stampelle indaffarato e pensa solo ai ciclamini, ma anche alle primule e ai gigli, e a come venderli al personale alleato che ronza attorno al processo. Dalle macerie, che solo a Norimberga nascondono trentamila morti, riemerge così lo spirito tedesco: complice dell’ascesa di Hitler e volano della ciclopica ricostruzione postbellica.
Arrivata in Germania nel 1946 per seguire il processo di Norimberga e poi tornata nel Paese nel 1949 e nel 1954 per documentarne, appunto, la ricostruzione, Rebecca West ha scritto delle strepitose corrispondenze che Skira pubblica per la prima volta in italiano, tradotte da Masolino d’Amico. Con l’autorevolezza, il sarcasmo, la pietas e lo stile asciutto e antiretorico che nel 1947 le fece guadagnare la copertina di Time e la qualifica di numero uno al mondo tra le scrittrici (all’epoca, nelle classifiche vigeva la segregazione sessuale), ha raccontato miserie e grandezze di Norimberga indagando la psicologia dei protagonisti, le assurdità burocratiche e la laboriosa nascita di un concetto di giustizia internazionale in un Paese occupato da russi, americani, britannici e francesi che già dimostravano chiaramente di avere idee piuttosto inconciliabili sul futuro del mondo.
Con l’occhio della romanziera inglese che conosce i nomi delle piante, degli stili architettonici, o di ogni possibile sfumatura d’incarnato, e che nota quanto siano migliori i cappotti indossati dalle sconfitte berlinesi rispetto a quelli delle vittoriose londinesi, West confeziona un reportage memorabile. Perché, abile nel selezionare i dettagli e agile nel dispiegare gli scenari storico-politici e perfino antropologici, riesce a fissare gli elementi più indimenticabili. Prendiamo gli imputati: «Sconcertavano lo spettatore presentando l’aspetto sfacciato che i personaggi storici, particolarmente nella malasorte, assumono nei cattivi quadri. Sembravano smaccatamente Maria Stuarda a Fotheringay o Napoleone a Sant’Elena in un qualche ammirato dipinto accademico di età vittoriana». Ecco, sebbene indulga a volte nella fisiognomica lombrosiana, West produce una galleria di ritratti fulminante.
Rudolf Hess, vice Führer dal 1934 al 1941, «era così evidentemente pazzo che sembrava una vergogna processarlo». Come per gli internati dei manicomi, dal suo aspetto non si individuava più l’appartenenza a una classe sociale. Lunatico e cinereo, manteneva per ore posizioni da contorsionista che nessuno sopporterebbe più di due minuti. «Sembrava che la sua mente non avesse superficie, come se ogni sua parte fosse stata spazzata via da un’esplosione, tranne l’abisso dove vivono gli incubi». L’ex ministro dell’Economia Hjalmar Schacht era impietrito dal furore, perché il tribunale osava processarlo: poteva sembrare un cadavere congelato dal rigor mortis che crea non poche difficoltà per sistemarlo nella bara. Julius Streicher, l’antisemita compulsivo con la fissa della perversione sessuale giudaica, «era un vecchio sporcaccione del tipo che molesta nei parchi, e una Germania sana lo avrebbe ricoverato molto prima». L’architetto del regime Albert Speer «era nero come una scimmia». Baldur von Schirach, ex capo della Gioventù hitleriana assomigliava a una scialba istitutrice: «Stupiva perché sembrava una donna, in un modo non comune tra quegli uomini che assomigliano alla donne». E il monumentale maresciallo del Reich Hermann Göring faceva pensare a una maitresse di bordello come quelle che si vedevano «lungo le ripide strade di Marsiglia, in piedi sulla soglia delle case, la maschera professionale della giovialità ancora fissa sui volti malgrado l’agio del tempo libero, coi loro grassi gatti a strofinarglisi contro le sottane aperte».
Nostante le cupe suggestioni sessuali giocoforza legate al nazismo, secondo West il sentimento dominante nelle lunghe fasi del processo non è lo sdegno o la morbosità, ma la noia. E il simbolo di Norimberga uno sbadiglio. Tutti non vedono l’ora che finisca, eccetto il giardiniere mutilato, che teme una contrazione dei suoi affari, e gli imputati, consapevoli che molti di loro finiranno impiccati.
Acuta nell’evidenziare le contraddizioni di un processo dove quella dei crimini contro la pace è una nozione del diritto ancora incerta e i giudici sono i vincitori, West ha una particolare capacità nel cogliere il lato grottesco delle situazioni. Soprattutto nelle paranoiche e confuse misure di condotta e sicurezza decise dalla Corte. Al pubblico maschile e femminile viene proibito di assopirsi, ma soprattutto di accavallare le gambe dopo che uno squarcio di polpaccio e sottoveste in fase di accavallamento ha rischiato di turbare gli imputati in fregola dopo mesi di digiuno sessuale. E, il giorno della sentenza, è vietato l’ingresso in tribunale a cappotti lunghi e borse: potrebbero nascondere armi. Una giornalista reduce da un servizio ben più avventuroso in Asia si presenta con una giacca piena di tasche e la lasciano passare: poi, nella più segreta di quelle tasche ritrova una pistola che le aveva fatto comodo nella trasferta asiatica. Era rimasta lì dentro, dimenticata. Aneddoto di una certa attualità italiana visti i recenti spari nei tribunali di Milano e Como.
Nei due successivi reportage, in piena ricostruzione, l’ansia produttivistica dei tedeschi fa a pugni con lo statalismo che vuole imporre la sinistra inglese, non si capisce se per applicare almeno in Germania la socialdemocrazia che non è riuscita ad affermare in patria o se per tagliare le gambe all’industria e all’impetuosa libera impresa tedesca e levarsi dai piedi un pericoloso concorrente. Ma sarà proprio quel germanico fervore produttivo, alimentato anche dal terrore di finire sotto i russi, a risolvere il problema di milioni di profughi cui gli Alleati non sanno dare una risposta: le fabbriche riaprono e i profughi del Reich si sistemano. Ci sono anche i primi tentativi di revisionismo ad opera di Hans Fritzsche, capo della radio di Goebbels scagionato a Norimberga («salì sul banco degli imputati e ne scese per pura mediocrità») e poi condannato da un tribunale tedesco di denazificazione. Appena rilasciato, nel 1950, pubblicò il suo resoconto del processo con un titolo in stile Brenno: La spada nella bilancia.
Detto questo, nonostante i suoi memorabili reportage, soprattutto giudiziari e geopolitici, i romanzi, e gli articoli, i racconti, le recensioni pubblicati dal New Yorker, dal Times o da New Republic, oggi quasi nessuno si ricorda di Rebecca West. Ed è un peccato.
Nata a Londra nel 1892 da una famiglia intellettuale povera e fabiana di origini scozzesi e irlandesi, e morta nel Surrey nel 1983, si chiamava in realtà Cicely Isabel Fairfield e rubò il suo pseudonimo a un’eroina femminista di Ibsen quando cominciò a calcare, con scarso successo, le scene teatrali. Femminista accesa, ma anche critica, scriveva sullo Freewoman e, a vent’anni, pubblicò una recensione malignetta di un romanzo di H.G. Wells, che definì una zitella. Lui, già sposato, pieno di amanti e di 26 anni più vecchio, la invitò a pranzo e allacciò con lei una tormentatissima relazione decennale da cui nacque un bambino, nei tempi in cui avere un figlio fuori dal matrimonio non era uno scherzo.
Libera, liberata e socialista, era Rebecca West. Ma tanto anticomunista e antisovietica da supportare il maccartismo, e così realista da confessare nel 1981, in una sterminata intervista alla Paris Review, che, fosse stata un uomo, la carriera le sarebbe andata molto meglio: non avrebbe avuto tutti quei doveri familiari che le hanno impedito di seguire la sua vocazione. Il figlio Anthony, anch’egli trapassato, non doveva essere dello stesso parere: nel 1955 pubblicò Heritage, romanzo velatamente autobiografico in cui accusava la madre di tutte le colpe che si potevano attribuire a una donna emancipata dell’epoca. Da allora i rapporti non si ripresero più.
Altra nemesi non rara per una pioniera del femminismo: dopo un lungo celibato costellato da passioni e flirt (anche con Charlie Chaplin, pare), nel 1937 si sposò con un banchiere che amò e curò devotamente, ma dopo la sua morte avvenuta nel 1968, anno di rivelazioni e rivoluzioni sorprendenti, scoprì che il mansueto banchiere l’aveva riempita di corna. L’ultima amante era una ballerina norvegese: pretese di partecipare ai funerali e di intascare cinquemila sterline di eredità.
Paola Zanuttini