Paola Zanuttini, il venerdì 12/6/2015, 12 giugno 2015
COSA VUOL DIRE ESSERE UN INVIATO PER CONTO DI DIO
[Vincenzo Buonomo]
ROMA. Alla morte di papa Roncalli, i Paesi che avevano rapporti diplomatici con il Vaticano erano 40. Al tramonto del pontificato di Paolo VI erano diventati 70. E cento di più quando finì il lunghissimo regno di Wojtyla. Oggi la Santa Sede mantiene relazioni con 182 Paesi e 32 organizzazioni internazionali, Lega araba compresa. Ha siglato una novantina di concordati, auspicati non solo dalle diocesi locali, ma anche dagli Stati che non possono fornire ai loro cittadini servizi essenziali come scuola o assistenza e delegano il compito alla Chiesa cattolica. La rete di contatti del più piccolo Stato della Terra è cresciuta esponenzialmente, ma questa è una vocazione antica.
«La diplomazia pontificia nasce già ai tempi dell’impero di Bisanzio: il Papa inviava i suoi rappresentanti presso l’imperatore o i concili che, all’epoca, l’imperatore poteva convocare», spiega Vincenzo Buonomo, ordinario di Diritto internazionale alla Pontificia università Lateranense e di Diritto diplomatico alla Pontificia accademia ecclesiastica, che dal 1701 forma i futuri rappresentanti della Santa Sede presso le Chiese e i governi del mondo. «Una delle figure di maggior spicco di questa diplomazia fu Fabio Chigi, che fu prima nunzio a Colonia, e poi papa Alessandro VII: partecipò ai negoziati per la pace di Vestfalia che, nel 1648, chiuse la Guerra dei trent’anni. Fu lui a dar vita a norme e usi non legati alle consuetudini, ma a una codificazione scritta. Su ogni manuale di diritto diplomatico c’è l’episodio del ponte e delle due carrozze, una dell’inviato papale e l’altra di quello imperiale: i giannizzeri si scontravano e chi vinceva passava per primo. Poi furono introdotte le regole di precedenza diplomatica».
E chi la ottenne?
«Il Papa, per il suo primato spirituale».
Come si diventa ambasciatori del Papa?
«È una formazione limitata ai sacerdoti giovani, con un’esperienza pastorale di almeno tre anni. Sono selezionati dai loro vescovi e accolti dopo un’ulteriore selezione dalla Pontificia accademia ecclesiastica. Oltre a seguire i corsi interni, devono frequentare una delle pontificie università romane e concludere i loro studi con un triplice grado: dottorato in una disciplina ecclesiastica, che può essere Teologia, Filosofia, Diritto; una licenza in materie giuridiche; e un diploma di diritto diplomatico. In più, devono naturalmente studiare le lingue. Diciamo che ogni anno dall’Accademia escono dieci futuri diplomatici».
Una volta, sull’attribuzione delle cariche influiva il censo. E oggi?
«Oggi i sacerdoti delle nuove Chiese asiatiche, africane e latinoamericane hanno reso il corpo diplomatico, che non arriva a 300 persone, molto più eterogeneo. Ma già nel 1969 Paolo VI, come conclusione del Concilio, fece un documento, in realtà non molto noto, dove si afferma che lo staff della diplomazia deve essere universale e provenire da tutte le diocesi».
Non era stato nunzio anche Giovanni XXIII, l’artefice del Concilio?
«Sì, a Parigi, ma prima era delegato apostolico a Istanbul. Racconta nel suo Diario dell’anima come fu catapultato a Parigi: la nunziatura era vacante perché De Gaulle aveva allontanato monsignor Valeri, compromesso con il regime di Vichy, e bisognava assolutamente che il decano diplomatico, ruolo attribuito – nei Paesi di tradizione cattolica – al nunzio apostolico, porgesse gli auguri dell’anno nuovo a De Gaulle. Era il 1945».
Fino all’Unità d’Italia un nunzio rappresenta anche degli interessi temporali, com’è cambiata la sua missione?
«Anche prima, la Santa Sede aveva un approccio multilaterale. Al Congresso di Vienna il Cardinal Consalvi non negozia il territorio degli Stati Pontifici, ma il valore della sede apostolica. In tutti i tempi, la finalità non era governare i confini, ma la missione della Chiesa nel mondo».
Negli anni bui del papato non andava proprio così.
«Certo. Ma anche dopo la presa di Roma la Santa Sede mantiene relazioni diplomatiche, non con l’Italia, ma con oltre una trentina di Paesi; e all’epoca gli Stati erano meno di 50. È un periodo di grande attività, si concludono 24 accordi e mediazioni internazionali. Leone XIII negozia nel contenzioso tra Spagna e Germania sulle Isole Caroline. E nel 1899 alla prima Conferenza di pace dell’Aja a cui il Vaticano non partecipa – perché è ancora aperta la questione romana e l’Italia dice o noi o loro – sempre Leone XIII scrive alla regina Guglielmina auspicando la nascita di una corte internazionale che risolva pacificamente i conflitti».
Venendo a tempi più recenti, a Wojtyla schierato a Est e a Bergoglio sul Sudamerica, cos’altro è cambiato?
«Ogni papa dà un’ impronta alla diplomazia, che segue sempre una linea: per lo Stato è la ragion di Stato e per la Chiesa ragion di Chiesa. E la ragion di Chiesa si sposta. Ridurre l’attività di Francesco al Sudamerica, dopo i viaggi in Corea e nelle Filippine, è limitante. La sua è una geopolitica molto più alla mano, grazie a internet, alle notizie in tempo reale, alla sensazione di vivere in un modo aperto. Questa sua idea del mondo aperto, che va dalle periferie al centro».
E l’impronta di Benedetto XVI?
«È nel discorso all’Onu del 18 aprile 2008 che introduce la questione metodologica nell’universalità dei diritti umani: non sono universali i diritti, ma lo è la persona, che è uguale in tutto il pianeta. Se partiamo dai diritti avremo degli scontri perché ognuno li leggerà a modo suo. Sempre in termini di multilateralità, quel discorso riprende un’intuizione di Paolo VI, che per primo, cinquantanni fa, va all’Onu, e oltre a lanciare slogan molto ripresi come Lo sviluppo è il nome della pace, dice: noi siamo qui perché portiamo avanti da 2000 anni un messaggio e siamo come il pellegrino giunto a destinazione. Il messaggio è portare la buona novella a tutte le genti, far capire che la diplomazia della Santa Sede oggi non ha obiettivi temporali, ma ha quello di annunciare qualcosa su cui anche chi non crede può convenire».
Qual è la differenza fra un diplomatico di un qualsiasi Stato e uno del Vaticano?
«Il fatto che è un sacerdote, che ha una formazione teologica e pastorale, quindi un rapporto diretto con le persone. Il nunzio decritta meglio le situazioni perché ha un canale diretto con le realtà locali che arriva fino ai missionari. Nasce anche da questo il consolidato rapporto con le organizzazioni internazionali. Da sostituto alla Segreteria di Stato, Montini collaborò con la Fao prima che si stabilisse a Roma nel 1953, perché servivano i missionari per far giungere gli aiuti alimentari dopo la guerra. I miei studenti mi chiedono se un nunzio potrebbe essere laico e io che sono un laico rispondo di no, perché la Santa Sede si identifica nel colletto e tutti sanno che al suo rappresentante ci si rivolge con la certezza che non ha un interesse immediato, un territorio da conquistare o un accordo commerciale da concludere. Il suo compito è dare attenzione a tutti».
Anche Wesolowski, nunzio a Santo Domingo, aveva il colletto. E di attenzioni a bambini di strada ne ha date fin troppe.
«Con lui si agisce secondo le regole del diritto diplomatico: se un diplomatico commette un crimine nel Paese in cui è accreditato, in base all’immunità diplomatica è processato nel Paese che rappresenta».
Sì, ma quando?
«Non ho notizie dirette, ma credo che i tempi della giustizia procedano».
Perché Casaroli, grande diplomatico, parlava di martirio della pazienza?
«Perché bisogna che tutti comprendano quello che si sta facendo. Pareva che il comunismo non finisse mai e lui continuava a negoziare, sembrava un illuso. Ma oggi gli storici dicono che prima dell’Ostpolitic di Willy Brandt c’è quella di Casaroli e Giovanni XXIII».
La Chiesa è tenace nella pazienza perché ha più dimestichezza con l’eterno?
«È un eterno molto realistico. Prendiamo il disarmo o i diritti umani: oggi, dopo quarant’anni, vediamo gli effetti della Conferenza di Helsinki dove la Santa Sede si impegnò moltissimo. Allora non ci credeva nessuno, nemmeno i Paesi che avevano sottoscritto quegli accordi».
Paola Zanuttini