Antonio D’Orrico, Sette 12/6/2015, 12 giugno 2015
GLI ZOMBIE DI SPOON RIVER SI RISVEGLIANO SULLA COLLINA
Nel 2005 William Willingthon andò, la Leica in pugno, a Lewistown, Illinois, per fotografare i luoghi che avevano ispirato le sue poesie preferite, quelle dell’Antologia di Spoon River. Per qualche giorno, però, non trovò il coraggio di mettere piede nel cimitero che è il teatro dove gli eroi di Edgar Lee Masters vanno in scena per pronunciare ognuno il proprio epitaffio (e lo fanno ormai da un secolo esatto; fu nel 1915 che il libro venne pubblicato in America e diventò un successo mondiale e il libro di poesie più venduto del Novecento). Spoon River è una specie di Divina Commedia nel senso che a parlare sono i morti e raccontano la loro vita, i loro sogni, i loro incubi, i torti che hanno subito e quelli che hanno fatto, i rimpianti e i desideri.
Figlio di un avvocato. Edgar Lee Masters era un avvocato, figlio di un avvocato, ma amava la poesia più dei codici. Scriveva poemi in stile classicheggiante dove lo sbadiglio dell’eventuale lettore non era un optional ma era compreso nella dotazione di serie. Non aveva alcuna speranza di sfondare in letteratura il giovane Edgar. Il padre, preoccupato del futuro di quel figlio liricheggiante, lo costrinse a prendere la laurea. Il giovanotto diventò, alla fine, un avvocato, non un grande avvocato, non un avvocatone alla Perry Mason o alla maniera di quelli che popolano i romanzi di Grisham, bensì un avvocato senza infamia e senza lode come, d’altra parte, era stato il padre.
L’Elisir della Giovinezza. Masters figlio si era laureato ma la sua non era stata una resa. Diciamo che si era trattato di una ritirata strategica. Il suo pensiero fisso non l’aveva abbandonato. Voleva diventare un poeta. Ci riuscì appunto nel 1915 (aveva già 46 anni) quando, ispirandosi agli epigrammisti greci e alla Commedia umana di Balzac, diede la parola ai 244 inquilini delle tombe di un cimiterino di campagna in un paese lungo le rive del fiume Spoon. Costoro, come testimoni (o imputati? o colpevoli?) chiamati a deporre (Edgar, anche se controvoglia, restava pur sempre un avvocato), rilasciavano la loro confessione quasi come se avessero giurato di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità, secondo la celebre formula. L’avvocato Masters voleva scrivere poesie che fossero il più possibile vicine alla realtà della vita quotidiana. Poesie così: «Ero la figlia di Lambert Hutchins / nata in una casetta vicino al molino / cresciuta nella villa sul poggio / con le guglie, le finestre d’angolo e il tetto d’ardesia. / Come era fiera della casa la mamma». Poesie che parlano della preoccupazione di avere una buona pensione quando verrà il momento (sembra scritta nell’Italia di oggi): «Volevo essere giudice della Contea / per un’altra sessione, in modo da arrotondare un servizio di / trent’anni». Poesie che parlano di incidenti sul lavoro o di donne morte durante «un parto illecito» oppure «sotto le mani di un bruto in un bordello». Poesie di medici (il dottor Siegfied Iseman), sedicenti inventori dell’Elisir dell’Eterna Giovinezza, finiti in prigione per truffa. Poesie di farmacisti, ottici, matti (come Frank Drummer che voleva imparare a memoria l’Enciclopedia Britannica) e che ora «tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina», come dice il ritornello famoso (per alcuni famigerato) del requiem di Spoon River.
In quei versi Masters diventa l’avvocato delle cause perse dei suoi eroi o il loro ultimo giudice. Non mancano poesie più romantiche. Prima di parlarne, facciamo un salto in avanti di una ventina d’anni e spostiamoci in Italia dove una ragazza prende lezioni private e clandestine (in quanto il prof è perseguitato dal fascismo) di letteratura dallo scrittore Cesare Pavese. Un giorno, la ragazza, che si chiama Fernanda Pivano e ha ventuno anni, chiede al professore la differenza tra la letteratura inglese e quella americana. Pavese ci pensa. Giocherella con la pipa. Poi si alza e prende quattro libri che dà alla ragazza. Uno è Addio alle armi di Hemingway. Il secondo le Memorie di Sherwood Anderson. Il terzo Foglie d’erba di Walt Whitman. L’ultimo l’Antologia di Spoon River.
Fernanda torna a casa e apre le poesie di Masters. La prima sulla quale le cade l’occhio è una poesia d’amore (e, ovvio, di morte; l’ingrediente cimiteriale non manca mai nella magica ricetta di Spoon River). È la poesia in cui Francis Turner, malato di cuore a causa della scarlattina contratta nell’infanzia, racconta il suo segreto (la verità, tutta la verità…). Un giorno Francis si trovava assieme a Mary, la ragazza che gli piaceva, in un bel giardino di acacie, catalpe e pergole di viti. A causa della sua debolezza cardiaca, Francis non aveva mai potuto fare sforzi in vita sua, non aveva potuto correre, né giocare, né lasciarsi andare anche a un’emozione minima. Era stato condannato a stare come un bicchiere, come dicevano i medici di una volta. Ma quel pomeriggio di giugno in quel giardinetto dell’Eden sulle rive dello Spoon, al fianco della bella Mary, Francis non seppe resistere e baciò la ragazza con l’anima sulle labbra e «l’anima d’improvviso mi fuggì». Così morì il tenero Francis Turner e ora, anche lui, dorme, dorme, dorme sulla collina. Che gli sia lieve la terra.
Il quaderno segreto di Nanda. Turbata dalla lettura di questa poesia (era una ragazza di una volta anche se nel suo destino ci sarebbe stato l’incontro con gli spregiudicati e, spesso, bisessuali poeti della beat generation), Fernanda cominciò a tradurre per conto suo quell’Antologia che parlava di tante cose (non solo sessuali) proibite nell’Italia degli Anni Trenta. Un po’ di tempo dopo Pavese scoprì per caso il quaderno dove la Pivano aveva trascritto le sue traduzioni. Lo aprì, lesse qualche pagina e disse: «Allora ha capito la differenza tra letteratura inglese e letteratura americana». E se ne andò portandosi via il quaderno. Nel 1943 quel quaderno diventò un libro, la versione italiana del capolavoro di Masters. La pubblicò Einaudi e dopo qualche iniziale peripezia (il volume fu sequestrato) diventò un libro di culto per gli italiani (soprattutto i ragazzi e le ragazze) appena usciti dal fascismo. In copertina c’era una scritta in rosso che imitava la calligrafia di Pavese e che strillava: «La Divina Commedia del nostro tempo». Il libro ebbe il valore, particolarmente in Italia, di un manifesto politico, di una rivendicazione di libertà e fu una delle caravelle letterarie che ci portò alla riscoperta dell’America, uno dei segni più importanti della fine della dittatura autarchica del ventennio mussoliniano.
Ancora un altro salto, ma in avanti. Nell’estate del 1962, Fernanda Pivano pubblicò un reportage a puntate sul Corriere d’Informazione. Raccontava un viaggio alla ricerca di quello che restava di Spoon River. Andò a Lewistown e a Petersburg (altra cittadina che ispirò il mondo di Masters), nelle valli dei fiumi Sangamon e Spoon. Conobbe il direttore del quotidiano The Fulton Democrat, William Gilman Davidson, il più accanito nemico di Masters. Fernanda gli chiese come mai odiasse tanto quel bravo poeta. Il direttore gli spiegò che si trattava di un odio ereditario. Sua madre aveva ispirato a Masters il personaggio di Julia Miller, la moglie infelice di alcuni dei versi più dolorosi del poema, e suo padre ne aveva molto sofferto. Come poteva perdonare il poeta che aveva sputtanato (probabilmente nei secoli dei secoli) la sua famiglia? Ma le cose sono ancora più complicate. La vera Julia Miller (Margaret, una dolce fanciulla, una grecista autodidatta) fu il grande amore giovanile di Edgar Lee Masters. Poi lei sposò il padre di Davidson, anche lui direttore del Fulton Democrat. Nel libro, Davidson senior viene seppellito da Masters «vicino al fiume dove sbocca la fogna». Masters era un poeta che sapeva che la vendetta si serve fredda.
Nel suo viaggio a Lewistown la traduttrice italiana di Spoon River capì che l’Antologia era fatta di storie vere che ancora facevano male alla gente del posto. E questa era stata la forza che aveva permesso a quel libro di sprigionare il suo incantesimo mondiale. Eppure le poesie di Masters non sono mai particolarmente piaciute all’Accademia e all’Establishment (come Fernanda Pivano non si stancò mai di ripetere, maiuscole comprese) e, forse, proprio per questo hanno lasciato un segno profondissimo nella letteratura americana e inaugurato un filone (un format?) che va da Piccola città di Thornton Wilder a I peccati di Peyton Place, a un romanzo come Coppie di Updike, a una serie televisiva come Twin Peaks. E non è da escludere che l’avidità di vita dei personaggi di Masters abbia persino ispirato, anni dopo, i famelici zombie di Romero.
La fortuna dell’Antologia è stata anche musicale. Fabrizio De André dedicò, nel 1971, alle poesie di Masters il suo album Non al denaro, non all’amore, né al cielo. E innumerevoli sono state le versioni teatrali e televisive del libro (perché non un film?). In Italia la portò sulle scene un attore di grande scuola come Paolo Stoppa mentre Arnoldo Foà incise un disco dove prestò agli epitaffi la sua magnifica, metallica dizione.
Il guardiano del cimitero. E poi, negli anni Duemila, una sera a Milano si presentò alla Pivano il fotografo William Willingthon che aveva in mente di fare un reportage fotografico proprio nei luoghi dove molti anni prima la scrittrice aveva compiuto il suo reportage giornalistico. Da quell’incontro è nato Spoonriver, ciao, un libro con le immagini di Willinghton e i commenti alle foto di Fernanda. Un libro che ha la copertina di legno, legno che proviene dagli alberi di Spoon River. Alle soglie dei 90 anni (si è spenta nel 2009, era nata nel 1917), l’ex allieva di Cesare Pavese si è ritrovata ad avere a che fare con l’Antologia che la fulminò quando ne aveva 21. Quella strana Antologia scritta in uno stile la cui formula alchemica fu individuata con precisione da Eugenio Montale quando affermò che le parole di Edgar Lee Masters erano «meno del verso ma più della prosa». Ne deriva che il risultato finale di questa singolare combinazione è un romanzo più che un poema. Forse quel grande romanzo americano che tutti gli scrittori statunitensi hanno sempre cercato come l’araba fenice. Anni dopo Spoon River, Arthur Miller portò in teatro con enorme successo il dramma Morte di un commesso viaggiatore. È un’altra opera che molto deve alla lezione di Masters, il quale per primo ha insegnato che le tragedie americane non cantano la morte di principi o re, ma di ottici, farmacisti e, appunto, commessi viaggiatori...
Avevamo lasciato Willinghton fermo davanti al cimitero sulla collina. Gli si fece incontro un uomo che si offrì di fargli da guida. Si presentò come il guardiano del camposanto. E così, per tutto il giorno, Willinghton scattò foto su suggerimento di quest’uomo che sembrava sapere tutto del posto e dei suoi abitanti e di Masters. Quell’uomo è il regista segreto del reportage di Willinghton. Il giorno dopo il fotografo chiese notizie del custode del cimitero che era stato così gentile nel bar dove faceva di solito colazione durante il suo soggiorno a Lewistown, il barista lo guardò strano e gli disse: «Non c’è nessun guardiano a Spoon River». Willinghton finì di bere il suo caffè e capì che era l’ora di partire: il suo libro era finito.