Claudio Lindner, L’Espresso 12/6/2015, 12 giugno 2015
DOPO CAMERON ECCO DUDA
Hollande è il preferito di Angela Merkel, lo si può inserire tra i «migliori amici»: merita quindi cinque faccine. Il secondo è Cameron, con quattro faccine e la valutazione «amicizia stabile». Seguono Renzi e Obama, con tre faccine. Il premier italiano «piace da tanto», anche se i due ogni tanto «litigano sulla strategia da seguire per il salvataggio dell’euro, hanno fiducia l’uno nell’altro e riescono a sintonizzarsi». Le pagelle sono del settimanale popolare “Bild”, che le ha pubblicate il giorno del vertice G7 in Baviera sotto il titolo: «Con chi Merkel deve e con chi vuole». Hanno il valore del gioco da gossip, vero, ma rispecchiano bene i rapporti tra i leader in uno dei momenti più tormentati dell’Europa, tra crisi economica e disoccupazione, Grecia sull’orlo del precipizio, Inghilterra afflitta dai mal di pancia e la nuova Polonia in bilico.
Le cinque faccine di François Hollande sono una conquista abbastanza recente e collegabili alle conseguenze dell’attentato al giornale satirico “Charlie Hebdo”. Se prima i rapporti tra i due erano freddi, al di sotto dello standard franco-tedesco nel dopoguerra, la lotta al terrorismo e la marcia dei leader ha come risvegliato l’asse tra i due Paesi. Ne è convinto Giuseppe Vita, presidente di Unicredit e del gruppo editoriale Springer, che conosce molto bene la cancelliera. «La svolta c’è stata proprio a gennaio», ricorda. «Prima Merkel diceva che senza la Francia non sarebbe stato possibile fare nulla perché la Germania non avrebbe mai voluto una leadership solitaria, per tanti motivi legati soprattutto al passato. Il cambio di rotta è diventato evidente quando lei ha chiesto a Hollande di trattare assieme sul caso Ucraina, avendo di fronte Vladimir Putin».
Nelle ultime settimane è uscito anche un documento comune che in estrema sintesi propone di rafforzare l’integrazione politica europea con vertici più regolari, dare nuovi poteri all’Eurogruppo e fare altrettanto con l’Europarlamento. La Merkel, interpreta Vita, vorrebbe andare verso una “KernEuropa” (un nocciolo duro d’Europa) tra chi è nell’euro, anche se questo «non deve essere un pregiudizio ad excludendum»: dovrebbero parteciparvi Germania, Francia, Italia, Spagna, Polonia e gli altri Paesi più piccoli di buona volontà «per ripartire con la Federazione europea di cui tanto si parla, ma mai si è fatta». Il documento, molto succinto, ha il valore politico più che altro di suggerire una linea di condotta ai quattro presidenti delle principali istituzioni (Banca centrale, Commissione, Consiglio europeo ed Eurogruppo), che devono presentare il loro piano al vertice di Bruxelles del 25 e 26 giugno. Secondo indiscrezioni i “quattro” proporranno due fasi: una prima, fino al 2017, con aggiustamenti su controlli e riforme a tutela dell’Eurozona e una seconda, dopo le elezioni tedesche e francesi e il referendum inglese, con un vero programma al 2019 di rilancio dell’unione politica europea.
Merkel e Hollande vogliono rispondere all’offensiva lanciata in Europa la scorsa settimana da David Cameron. Il premier britannico è sotto tiro dell’ala più isolazionista ma anche dei suoi compagni di partito, tanto che in una lettera aperta sottoscritta da una sessantina di parlamentari conservatori e pubblicata domenica sul “Daily Mail” si sollecita a rivedere i trattati tra Gran Bretagna e Ue. Un’iniziativa che proprio durante il G7 bavarese ha messo in imbarazzo Cameron: prima ha minacciato di mandare via i ministri che dovessero pronunciarsi per la cosiddetta “Brexit”, poi si è corretto precisando che parlava solo del periodo di trattativa in corso con l’Ue. Il premier di Downing Street ha programmato il referendum per il 2017 ed è pronto ad aprire un negoziato con i partner Ue. Per grandi linee, vorrebbe il completamento del mercato unico, un ridimensionamento della burocrazia di Bruxelles e, soprattutto, limitare l’accesso «molto generoso» dei cittadini europei al welfare. Nonché una dichiarazione per cui Londra non si debba sentire vincolata a un’Unione più stretta. Una piattaforma che piace alla destra conservatrice e ai sostenitori del partito indipendentista Ukip, ma osteggiata dalla City finanziaria, timorosa di perdere peso internazionale. Non a caso alcune grandi banche d’affari americane hanno avvertito che, in caso di Brexit, si trasferiranno in Irlanda o Lussemburgo, mentre un folto gruppo di imprenditori e finanzieri britannici si sono pronunciati nettamente a favore della Ue.
IL VENTO DI VARSAVIA
E qual è la posizione italiana in questo nuovo confronto tra franco-tedeschi da una parte e inglesi dall’altra? «Abbiamo rispetto per la Gran Bretagna, Renzi e Cameron hanno ottimi rapporti», risponde Sandro Gozi, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con la delega agli Affari europei, «ed è interesse di tutti noi che Londra resti nella Ue. Tra l’altro su alcuni temi siamo in piena sintonia, dal completamento del mercato unico digitale al piano energetico, dal mercato unico dei servizi alla lotta alla burocrazia». L’Italia condivide anche l’ambizione del piano franco-tedesco per una maggiore integrazione e una democrazia più forte, «anche se ho l’impressione», aggiunge caustico Gozi, «che altre coppie di statisti, tipo Kohl-Mitterrand o Schmidt-Giscard d’Estaing, si influenzassero in maniera più positiva, mentre oggi l’accordo tra i due pare al ribasso: ciascuno ha annacquato le proprie posizioni perché su alcuni punti, vedi l’emigrazione e la governance, l’intesa è difficile».
Il documento italiano, presentato in vista del vertice di fine giugno contesta la politica di austerità e insiste molto su un approccio economico più ambizioso «perché se la crisi finanziaria è passata», dice Gozi, «quella economica e sociale potrebbe addirittura peggiorare e quindi bisogna puntare su politiche di solidarietà». Tra le proposte concrete quella di un’assicurazione europea contro la disoccupazione finanziata mettendo insieme le risorse nazionali e aiutare così quei Paesi dove il numero dei senza lavoro supera la media Ue, oltre a misure comuni contro la povertà. E ancora, un mercato unico più aperto, la richiesta di maggiori spese comunitarie in infrastrutture e un passo verso l’abolizione della concorrenza fiscale tra i Paesi membri.
In una prospettiva di lungo termine si auspicano progressi verso un’unione fiscale, attraverso anche il trasferimento di sovranità (argomento molto controverso) e un rafforzamento dell’architettura istituzionale e della sua legittimazione democratica. Per Gozi l’asse Berlino-Parigi «è necessario, ma non più sufficiente» perché molte sono le voci che si alzano dal fronte opposto. Accanto all’euroscetticismo inglese potrebbe crescere quello polacco dopo le ultime elezioni vinte dai nazionalisti del neo-presidente Andrzej Duda, c’è l’estrema destra che governa in Ungheria, la sinistra antieuro al governo in Grecia (Syriza) e vincente in Spagna (Podemos). Merkel lo sa bene (lei stessa ha perso domenica le elezioni del comune di Dresda, dove si è verificato un exploit del movimento xenofobo Pegida), così come è consapevole più di altri leader di cosa sia fattibile e cosa no. Da qui la sua gradualità, l’idea di un nucleo di partenza per la nuova integrazione europea al quale si possano poi aggiungere altri Paesi. D’altronde esiste la Bce, l’unione bancaria è cosa fatta, si potrebbe andare avanti con la Difesa unica, un ministro della Sanità europeo, mettere insieme la ricerca per far fronte agli altri colossi mondiali, e via dicendo.
Ma qui la strada si fa tortuosa. Nel frattempo si fissano alcuni punti imprescindibili. L’euro deve essere irreversibile. L’abbandono della Grecia e della Gran Bretagna è assolutamente da evitare. Meno burocrazia e più democrazia sono ormai indispensabili per riprendere i cittadini in fuga dall’Europa. Si apre dunque una resa dei conti per la sorte dell’Europa, che sia essa a 28 o a 19 (l’Eurozona) o ai 26 dello spazio Schengen. Nel pessimismo dilagante, Vita vuol dare una nota di fiducia sempre sulla Merkel. «Ha le idee ben chiare: può entrare nella storia come colei che ha salvato l’euro, così come Helmut Kohl si conquistò un posto come padre della riunificazione tedesca».