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 2015  giugno 11 Giovedì calendario

I cent’anni di Hurrà, il più antico periodico dedicato a un clb sportivo. Nato per tenere in contatto gli juventini arruolati nella Grande guerra, registra le loro testimonianze in chiave calcistica, tra slanci patriottici e goliardia La Stampa, giovedì 11 giugno 2015 «Gli Juventini sono fratelli, non avvertono l’affetto che nel distacco

I cent’anni di Hurrà, il più antico periodico dedicato a un clb sportivo. Nato per tenere in contatto gli juventini arruolati nella Grande guerra, registra le loro testimonianze in chiave calcistica, tra slanci patriottici e goliardia La Stampa, giovedì 11 giugno 2015 «Gli Juventini sono fratelli, non avvertono l’affetto che nel distacco. Sbandati dal turbine, cercano di tessere una trama, sia pur sottile, che li leghi e li renda presenti gli uni agli altri. «Vi riusciranno, perché tutto riesce nella Juventus! «Detto, fatto: si fonda un Bollettino, unpasse par-tout, che dovrà raggiungere il fronte, insinuarsi nelle trincee, e, richiedendolo il bisogno, finire nelle retrovie…». 10 giugno 1915, cento anni fa. Da diciassette giorni l’Italia è in guerra con l’Austria-Ungheria, e da un giornaletto di sei pagine sottili si leva per la prima volta l’entusiastico grido interventista «Hurrà!». Come l’urlo di battaglia dei cosacchi («Gu-rai!», qualcosa tipo «verso la beatitudine celeste!»), come l’urlo dei nostri soldati lanciati all’assalto delle trincee nemiche. Vede la luce quel giorno il primo periodico italiano consacrato a un club sportivo (sebbene restino tracce di un precedente foglio di incerta durata, Juventin Guerino), che proseguirà le sue pubblicazioni mensilmente, con qualche interruzione, fino al 1925, per poi rinascere nel 1963 come Hurrà Juventus. Vittoria, forza, fede La società fondata nel 1897 a Torino da un gruppo di studenti del prestigioso liceo D’Azeglio non era ancora la Vecchia Signora, anche se nel Bollettino molti la chiamavano ormai «la nostra vecchia Juventus», e i suoi primi sodali, abbandonati i banchi di scuola, erano diventati nel frattempo brillanti professionisti, letterati, docenti universitari. Erano tempi in cui i campi di «giuoco» si chiamavano pelouses, i giocatori foot-ballers, e le formazioni si assemblavano spesso poco prima della partita, arruolando i soci disponibili. Ma non per questo faceva difetto lo spirito di squadra, un senso cameratesco in cui i vincoli di fratellanza e la comunanza di ideali venivano evocati non meno della passione sportiva. È in questo spirito che, allo scoppio della Grande guerra, risuona il primo Hurrà!, su iniziativa di Gioacchino Armano, Sandro Zambelli e dell’ex calciatore Fernando Nizza, con un impegnativo piano editoriale: «Anche noi, come il Collega Sen. Frassati [il fondatore della Stampa, ndr], lasciamo ai nostri collaboratori la massima libertà di esprimere “liberi sensi in libere parole”». Il foglio vuole essere un «omaggio degli Juventini rimasti a Torino ai loro consoci sotto le armi», come si legge sulla manchette a sinistra della testata. Sull’altra manchette, a destra, «la vittoria è del forte che ha fede», dall’inno composto dal critico e poeta (poi presidente del club) Corrado Corradini. Vittoria, forza, fede: concetti validi sui campi di calcio come su quelli di battaglia. E in un giovanile («juventino») slancio patriottico, che unisce il nazionalismo e l’irredentismo dannunziani alle suggestioni futuriste e ai toni goliardici, non senza venature scapigliate, decine di soci si stringono a coorte e partono volontari. Un prigioniero a sorpresa Figli dell’aristocrazia e della media e alta borghesia subalpina, sono quasi tutti inquadrati tra gli ufficiali e i sottufficiali. L’avventura bellica è per loro come il gioco del pallone. Nelle prime lettere dal fronte, pubblicate su Hurrà!, affiorano di continuo (a volte insistite ai limiti della stucchevolezza) le metafore calcistiche irridenti verso il nemico. Nella fremente attesa del battesimo del fuoco, tutti assicurano di stare «benone», come il socio-calciatore Ernesto Boglietti che il 24 luglio 1915 aggiunge: «Non desidero che di trovarmi vis-à-vis o meglio vis-à-doscon un Austriaco per fargli provare la potenza degli shoots juventini». Mentre Benigno Dalmazzo, il 29 luglio, spiega che «non abbiamo premura di vincere ma la vittoria sarà completa; il Girone sarà lungo ma otterremo il Campionato; se non basta il tempo regolamentare faremo delle riprese supplementari, ma la débâcle degli avversari sarà clamorosa e il Capitano Cecco Beppe sarà costretto a dare le dimissioni». Si parla di «dribblare le granate nemiche», di «questo grande match internazionale che giuocheremo col massimo impegno e con tutta fiducia di vittoria». Qualcuno (Giuseppe Giriodi, 13 giugno) lamenta di non avere «potuto trovare un pezzetto di terreno pianeggiante da impiantarvi un campo di foot-ball». Lo stesso giorno un altro (Enrico Canfari, il presidente-soldato della Juventus) informa che «ora abbiamo inaugurato il tiro alla scrofa col foot-ball, in un vasto cortile». E possono darsi agnizioni da teatro classico, come quella di cui ancora riferisce Ernesto Boglietti (27 novembre) che, tra i prigionieri nemici, trova «Löwenfeld, l’half-destro della Wiener Amateur Sportverein, che nella partita pasquale dell’anno scorso fu il mio angelo custode». Dal gioco alla tragedia Ci sono anche testimonianze drammatiche, resoconti della vita al fronte, delle difficoltà quotidiane («Costruimmo trincee di ricovero», scrive Mario Nicola il 29 luglio, «baracche per depositi, ponti, strade, e divenni così… ingegnere. La guerra operò il miracolo di passarmi tout-court da avvocato ad ingegnere!»), delle prime granate esplose a pochi metri di distanza. E c’è la notizia della «tragica sorte degli irredenti italiani periti in Galizia combattendo sotto la bandiera austriaca», che «ha colpito il nostro consocio Piero Luxardo di Zara», torinese d’elezione, costretto col ricatto ad arruolarsi con «coloro che a ragione considerava i suoi nemici». Ma nel complesso sulle pagine diHurrà! (sei, otto, non di più) prevalgono i toni scanzonati, le felicitazioni per matrimoni e nascite, le battute in dialetto piemontese, le poesiole, le vignette, i giochi di parole, le residue cronache sportive, come quella che dà conto di un’ignominiosa sconfitta per 0 a 3 contro l’Unione Sportiva Torinese, quando «Lora, a Torino per deperimento organico, e Bigatto, che da 7 mesi non toccava più pallone e s’era frattanto impinguato in modo indecente, vollero scendere anch’essi in campo». Si scherza sulla parlata dei commilitoni veneti e meridionali. Ma la tragica realtà della guerra non tarda a farsi riconoscere. Agli elenchi dei «soci sotto le armi», sempre più nutriti e comprensivi ormai anche di soldati semplici, si alternano quelli dei «nostri morti», accompagnati da brevi commosse biografie. Tra i primi caduti, il 23 ottobre 1915 sull’Isonzo, c’è anche il presidente Canfari, capitano trentottenne, e Hurrà! gli dedica un intero numero di ben 16 pagine. Il bollettino prosegue le pubblicazioni per tutto il 1916, per interrompersi nei mesi più drammatici del conflitto. Riprenderà dopo la Vittoria, quando anche i campi di gioco, nel frattempo convertiti a terreni agricoli e pascoli per gli animali, torneranno a essere calcati dai foot-ballers. Ma anche il calcio, ormai, si avviava a diventare una cosa seria. Nella bufera che aveva investito il mondo la primigenia spensieratezza se n’era andata per sempre. Maurizio Assalto