Lavinia Farnese, Vanity Fair 10/6/2015, 10 giugno 2015
POI HO MESSO LA TESTA A POSTO
Sul palco, l’ultimo violino di Con te partirò ha smesso di suonare. Andrea Bocelli torna dietro le quinte, dove trova la mano della moglie Veronica, che gli sussurra delle parole all’orecchio, e con i suoi tacchi lo guida lungo le scale, verso l’uscita. Si allontanano tra l’eco degli applausi.
Quando era ragazzo, una sua serata non sarebbe finita così. Cantava nei piano bar della Versilia e con in tasca le 20 mila lire appena guadagnate «non era mai l’ora di rincasare. Con gli amici finivamo a spaghettate di mezzanotte, musica e insonnia, e a comporre improbabili canzoni per i nostri amori impossibili».
Ne sono cambiate di cose da allora. Una cena con lui oggi vale due milioni di euro – a tanto è stata battuta al gala dell’amfAR al Festival di Cannes – e, nei trent’anni passati da quei repertori giovanili, ci sono stati concerti per i Pontefici e per quattro presidenti americani, 110 milioni di dischi venduti, 200 mila spettatori sotto la Torre Eiffel a Parigi, 70 mila al Central Park di New York, una stella sulla Walk of Fame e uno spettacolo alla Sagrada Familia di Barcellona.
«Secondo in potenza solo al Papa», l’hanno definito qui e lì critici musicali internazionali, ma lui ci tiene a far sapere di non avere «perso la ragione. Montarsi la testa è un incidente intellettuale, una sciagura che per fortuna sono riuscito a tenere sempre ben lontana da me», dice all’evento Nespresso per il primo flagship store italiano, in cui si è esibito da special guest star proprio a due passi dal Duomo di Milano, dove aveva inaugurato Expo.
Parla della sua voce come di un «dono del cielo». Sostiene che non ci sia mattina in cui non si senta «in debito con il mondo», e per questo ha creato la Fondazione benefica che porta il suo nome. Ricorda quel che, da credente e no, «è sempre utile tenere a mente, e cioè che il transito terreno è un piccolo segmento per ciascuno di noi e, qualunque cosa si faccia, alla fine recitiamo una parte destinata a scomparire nel corso del tempo».
Per questo, ha imparato a impiegare bene il suo. Riconosce nella sua «famiglia unita e felice il modo migliore per investirlo». Con sua madre Edi, che un giorno ringraziò «per non avere abortito». E con sua moglie Veronica, 25 anni più giovane e da 13 al suo fianco, «diventata la donna della mia vita dal primo contatto in quella festa a Ferrara: compagna, amica, amante».
È lei che gli ha fatto comprendere «la bontà morale della monogamia». Dice: «Solo “biologicamente” l’uomo è poligamo. Io, che ero un irrequieto, ho capito che il sesso è croce e delizia, che gli eccessi portano sempre guai, che con la carne debole e le tentazioni sempre dietro l’angolo si rischia di far soffrire chi ci vive accanto. Sicché, ho dovuto mettere la testa a posto, per amore».
Padre nei 30 di Amos e Matteo, e poi a 53 di Virginia, può dire sulla propria pelle che «tornare a esserlo con i capelli brizzolati insegna. È vero, si hanno meno energie, ma si è genitori più solidi, meno ansiosi, si apprezza di più l’incanto. La piccola, poi, è legatissima ai suoi fratelli». E anche a Lajatico, in Valdera, un angolo di Toscana dove «ho avuto la fortuna di nascere e crescere, bambino magro e irrequieto prima, ragazzo curioso e sognatore dopo».
Lì, dieci anni fa, ha costruito il Teatro del Silenzio. «È una Woodstock del bel canto: su un palco naturale che non ha uguali, con le quinte di campi di grano e un tetto di stelle, ogni edizione richiama 15 mila persone. Sono passati anche Steve Jobs e Sharon Stone. Tutti in scarpe da tennis». È l’occasione per ricevere «a casa» gli amici artisti: «Verranno Gianna Nannini, Roberto Bolle, Renato Zero».
Inviterebbe mai i «tenorini» del Volo che hanno vinto Sanremo e poi sono saliti sul podio all’Eurovision? «Perché no? Da patriota è una buona notizia che contribuiscano a far conoscere il repertorio lirico italiano».
La pensione può aspettare: «Dischi in uscita e impegni dal vivo riempiono il calendario dei prossimi anni. Finché Dio vorrà, prenderò aerei per l’Europa, l’America, l’Oriente, non senza fatica, ma con immutata passione».
Chi lo vorrebbe in politica, invece, desista: «È una cosa seria, non ne sarei capace, e neppure ne ho desiderio». Se gli venisse? «Lo farei senza compenso, servire il proprio Paese è un onore».
A chiedergli da dove pensa che arrivi il suo talento, torna molto indietro: «Probabilmente era scritto nei miei cromosomi. Raccontano che, quando ero ancora nella culla, bastava mettere un brano e non piangevo più. Di giorno guardavo il lavoro dei contadini e la sera mi divertivo a riconoscere tutte le arie dell’epoca, le imparavo a memoria e provavo a imitarle a squarciagola sul camino della cucina. Se non avessi coltivato questa dote con studio e abnegazione, probabilmente sarei un avvocato. A riguardarla, la mia vita sembra una fiaba».