Maurizio Pesce, Wired 6/2015, 10 giugno 2015
LA MIA NETFLIX ROMPERÀ LA TV
Gli occhi azzurri ti setacciano come uno scanner: il creatore di Netflix, Reed Hastings, sembra più un professore di matematica di un liceo della East Coast, dove in effetti è cresciuto, piuttosto che l’uomo che sta rivoluzionando la tv. Per intervistarlo in esclusiva e avere la conferma ufficiale che sì, da ottobre Netflix sarà anche in Italia, Wired lo ha raggiunto al Tiergarten, in un piccolo albergo nel mezzo del giardino zoologico di Berlino. Anche questo, in fondo, un luogo più da prof che da imprenditore seriale.
L’annuncio era atteso da mesi e l’ufficialità arriva adesso, proprio su Wired: «Netflix sarà disponibile in Italia da ottobre, anche se non abbiamo ancora fissato il giorno esatto», ci ha rivelato il ceo dall’azienda con sede a Los Gatos, California. A guardare il calendario, spiccano due date: l’8 ottobre, nel caso Hastings voglia farsi un regalo per il suo cinquantacinquesimo compleanno, o il 16, quando inizierà la Festa del Cinema di Roma. Per Hastings sarebbe un ritorno: all’inizio degli anni 2000 ha vissuto per un anno all’Aventino. «La nostra filosofia», rivela, «è come la cucina italiana: usiamo pochi ingredienti e li usiamo bene».
Così è anche Netflix, semplice: non ci sono pacchetti, non ci sono distinzioni. Con un solo abbonamento mensile si accede a migliaia di serie tv, film e documentari, in streaming, senza limiti di quantità, senza pubblicità. I prezzi per l’Italia sono ancora da definire, ma «saranno comunque in linea con quelli degli altri paesi europei». Parliamo, quindi, di 7,99 euro al mese, tutto incluso. Un catalogo digitale di oltre un milione di gigabyte che nel 2013 ha generato 114mila anni di riproduzioni video al mese e che nel 2015 ha già triplicato il traffico, raggiungendo 10 miliardi di ore di “trasmissione” nel primo trimestre, con una media di 380mila anni al mese.
Attualmente, gli oltre 60 milioni di abbonati al servizio sono distribuiti in 50 paesi: 40 milioni solo negli Stati Uniti. A ottobre, finalmente, sarà anche il momento dell’Italia, in ritardo anche rispetto a Groenlandia, Haiti e Cuba. Sì, Cuba. Come abbiamo fatto ad arrivare dopo Cuba? Due, i motivi principali: catalogo e banda larga. Tra i due, il primo è il meno importante, perché il modello di lancio di Netflix nei nuovi paesi è sempre lo stesso: 80% di contenuti di provenienza americana e 20% di contenuti locali, anche autoprodotti. Da questo punto di vista, a favore di Cuba ha giocato la geografia: «Avevamo già i diritti per i Caraibi e una volta che Washington ha tolto l’embargo siamo partiti», dice Hastings, lasciando svolazzare nell’aria la portata storica dell’annuncio.
Per l’Italia, invece, a quasi cinque mesi dal lancio non c’è ancora una lista ufficiale dei programmi che saranno disponibili sulla piattaforma. Sappiamo solo che tutte le nuove produzioni di Netflix saranno incluse, da Daredevil a Bloodline, fino a Sense8. Di Orange is the New Black Netflix avrà le repliche, dopo l’anteprima su Mediaset Premium, mentre non ci sarà House of Cards, prodotta dall’azienda di Hastings, ma i cui diritti italiani sono stati acquisiti da Sky Atlantic. Della serie sulla politica americana con Kevin Spacey e Robin Wright, probabilmente, Netflix riuscirà ad avere solo la terza finestra italiana, cioè le repliche delle repliche. «Il prezzo di acquisizione è troppo alto», dice Hastings, rassegnato, mentre comunque gongola per il successo riscosso dalla serie.
È quello che Hastings chiama “lo Spotify effect”: su Netflix gli utenti si aspettano di trovare tutto, anche a costo di pagare qualcosa in più. Ma l’industria televisiva non lo permette. Non ancora, almeno. Al contrario del mondo della musica, dove ogni stazione radio può trasmettere le stesse canzoni, quando un’emittente tv acquista i diritti per un programma nessun altro può averlo in contemporanea. In Europa, poi, c’è una vera balcanizzazione dei contenuti, una situazione che la Commissione europea vorrebbe eliminare con la creazione di un Mercato unico digitale. Non il problema principale, per Hastings. Secondo lui in tanti fingono di essere localizzati altrove pur di accedere a contenuti che non sono disponibili nel proprio paese, ma per i quali sono comunque disposti a pagare. «Oggi l’unico modo per controllare i diritti globali di un programma è produrlo», sostiene. Non a caso, in tre anni Netflix ha già prodotto 320 ore di contenuti originali: tre film e 18 serie televisive, oltre a cinque in cui è subentrata dopo la cancellazione da parte dei rispettivi network. Un piccolo tesoro che è valso a Netflix 45 nomination agli Emmy Award (16 vinti), 13 ai Golden Globe (due conquistati) e due all’Oscar, senza vittorie.
La prima produzione, nel 2011, è stata House of Cards, soffiata a colpi di rialzo a Hbo. «Non avevamo mai prodotto nulla ed è stato molto difficile decidere di investire 100 milioni di dollari su un singolo progetto. Siamo arrivati quasi al punto di abbandonare l’idea», racconta il ceo. Che poi aggiunge, ridendo: «Probabilmente l’abbiamo pagata molto più di quanto avremmo dovuto. Ma ha funzionato benissimo». È stata la prima grande produzione destinata a internet: «Quando abbiamo detto che volevamo fare House of Cards su Netflix, e non sui network tradizionali, ci hanno dato dei pazzi», aveva raccontato Dana Brunetti, produttore della serie. «Mentre ero al telefono con la produzione, Kevin Spacey mi guardava con aria perplessa. E mi chiedeva: “Niente tv? Il nostro show andrà solo in dvd?”. Gli ho detto di non preoccuparsi, di accettare». Fin qui ogni produzione è andata bene, abbastanza per approvare una seconda stagione. Seguendo l’espansione fuori dagli Stati Uniti, anche le produzioni hanno iniziato a coinvolgere altri paesi: dopo Lilyhammer, girata in Norvegia, sono in lavorazione una serie ambientata a Marsiglia sulla corruzione nella politica francese e una su una squadra di calcio in Messico, mentre in Colombia stanno girando un documentario sulla storia della cocaina. «Il nostro obiettivo è fornire un palcoscenico globale a chi ha qualcosa da raccontare, tutto grazie alla rete».
Sempre grazie alla rete, Netflix è in grado di raccogliere una quantità di dati senza precedenti sui comportamenti degli abbonati, con cui si decidono i correlati da mostrare, anche in base a un numero altissimo di categorie, sotto-categorie e tag: l’anno scorso ammontavano già a 76.897. Per le produzioni, invece, ci si affida ancora alla creatività degli autori: «C’è una magia creativa che non è riconducibile all’algoritmo e ai big data. Puoi analizzare i dati per giocare in Borsa, ma non per scegliere una moglie. Agli autori diciamo di seguire la loro visione artistica, saremo noi a usare i big data per promuovere i programmi alle persone giuste».
Ma come fa Netflix a produrre così in fretta? «Investiamo molto, impiegando tutti i profitti per le produzioni successive. Spendiamo bene e produciamo valore». Lo testimonia l’andamento del titolo: alla quotazione a Wall Street nel 2002 un’azione di Netflix valeva 15 dollari, mentre a maggio ha superato i 600. Non che le cose siano sempre andate così bene, però. Hastings racconta che l’idea di Netflix gli è venuta nel 1997, dopo aver ricevuto una multa di 40 dollari per la restituzione tardiva di una copia di Apollo 13 in Vhs. Con un abbonamento fisso mensile, su Netflix si poteva richiedere un numero illimitato di dvd, che venivano recapitati tramite corriere, e sempre via corriere rispediti al mittente. Un servizio in grado di far concorrenza a grandi catene come Blockbuster. Dal 2004 al 2008 le due aziende si sono sfidate sul mercato, con il titolo di Netflix salito prima fino a 39 dollari e poi crollato a nove, quando ancora la crescita era troppo lenta per sembrare promettente. Blockbuster rifiutò di rilevare Netflix per appena 50 milioni di dollari e dal 2007 Hastings iniziò a puntare sullo streaming: «funzionava a malapena: andavano installati driver e software dedicati». Un servizio talmente traballante che un analista di Wall Street lo definì «un’inutile schifezza». Ma l’intuizione era giusta e il lancio dello streaming in Canada, nel 2010, fece pensare a Hastings che fosse ora di abbandonare il business dei dvd. Errore: per la seconda volta, Netflix fu sul punto di fallire, perché guardava troppo avanti, mentre il noleggio dei dvd rappresentava ancora l’80% dei ricavi. Tanto che il servizio fu riconfermato ed è disponibile ancora oggi, sempre e solo negli Stati Uniti, e conta circa sei milioni di abbonati.
Lo streaming, invece, ha proseguito la sua espansione internazionale: dopo l’America Latina (nel 2011) è stata la volta dell’Europa, con Regno Unito, Scandinavia e Danimarca (2012), Olanda (2013) e poi Francia, Germania, Austria, Belgio e Lussemburgo (2014). Quest’anno il servizio è stato lanciato in Australia e Nuova Zelanda e sarà presto disponibile, oltre che in Italia, anche in Giappone. Le produzioni sono la chiave per quella che Hastings ritiene una vera rivoluzione della televisione come l’abbiamo sempre intesa. «Per 50 anni abbiamo avuto la tv lineare, ma ogni cosa ha il suo tempo e prima o poi viene sostituita». Hastings fa due esempi. Negli anni ’90 il fax sembrava un miracolo, ma poi è stato rimpiazzato dal digitale. Anche il telefono fisso ha avuto un impatto enorme, ma è tramontato con l’affermarsi dei cellulari. L’internet television cambierà il modo di pensare i programmi e di guardarli. «La tv del futuro sarà un grande iPad: uno schermo connesso in cui i canali saranno rimpiazzati dalle applicazioni». Per vedere le nuove serie prodotte in 4K, come anche il prossimo Mondiale di calcio, basta una connessione a 25 megabit al secondo, mentre i televisori UltraHD sono appena arrivati e ancora molto costosi. Nel frattempo Netflix sta già lavorando allo standard successivo: l’Hdr, High Dynamic Range, per rendere i colori molto più saturi e brillanti. «Certo, si potranno sempre fare produzioni convenzionali, ma si potrà sperimentare, giocare con i formati, il coinvolgimento del pubblico, le trame o i finali alternativi, l’interattività». In un hackathon aperto a tutti i dipendenti, lo scorso anno uno sviluppatore ha associato Netflix a un braccialetto per il fitness per mettere automaticamente in pausa il programma quando i dati in arrivo dal polso indicano che ti sei addormentato sul divano.
Ora che Netflix ha indicato la strada, anche i grandi network sono partiti alla rincorsa. Fox e Disney hanno creato Hulu, che ha appena raggiunto nove milioni di abbonati, con una crescita del 50% in un anno. Gli stessi numeri, Netflix li ha fatti in soli tre mesi, aggiungendo 4,9 milioni di abbonati lo scorso marzo: il miglior risultato di sempre. Hbo ha da poco lanciato Hbo Now, servizio di streaming tutto incluso con cui l’azienda spera di fermare il calo di abbonati. Proprio in quest’ottica, il capo dei contenuti di Netflix, Ted Sarandos, ha detto: «Dobbiamo diventare Hbo prima che Hbo diventi Netflix». Hastings è sulla stessa linea: «Siamo una piattaforma di streaming che ha iniziato a produrre contenuti: dobbiamo completare la trasformazione prima che Hollywood impari a utilizzare la nostra tecnologia». Ma il gigante si è già svegliato: Nbc, per esempio, ha rilasciato online la prima stagione di Aquarius subito dopo il debutto televisivo della prima puntata: mentre sarà trasmessa canonicamente una puntata a settimana dal network, la nuova serie con David Duchovny è già disponibile in streaming per il “binge watching”, la pratica di vedere più episodi a ruota senza interruzione. Con la pubblicazione di intere stagioni in un colpo solo, proprio Netflix ha reso possibili le maratone tv, cambiando le abitudini degli spettatori. In realtà, per Hastings ogni nuova iniziativa che viene lanciata online non è rivale, ma alleata nel combattere la vecchia tv lineare: «Siamo co-pionieri di una nuova offerta, stiamo aprendo un mercato: più cresce la tv via internet, più diminuisce il consumo di quella lineare».
Una minaccia che ha portato a un incontro tra Rupert Murdoch e Silvio Berlusconi: uno dei temi sul tavolo sarebbe stato proprio un’alleanza tra Sky e Mediaset, per contrastare l’arrivo di Netflix. Hastings se la ride: «Qualsiasi cosa costringa quei due a un accordo dev’essere una forza molto potente. I consumatori italiani avranno presto un’offerta più ampia tra cui scegliere». Insomma, l’internet television ha lanciato la sfida e ora tocca ai broadcaster tradizionali decidere come rispondere. Nel Regno Unito, per esempio, la Bbc ha lanciato iPlayer e oggi i suoi programmi sono più visti on demand che in diretta. La barriera d’ingresso è bassa: «Se puoi programmare un’app per Android o iOS puoi diventare un network televisivo». A Los Gatos hanno messo a punto un algoritmo per regolare automaticamente la qualità dello streaming. Ci lavorano mille persone: il minimo richiesto è 500 kilobits per secondo e con 25 mega si vede in Ultra Hd.
L’altro fattore considerato per l’espansione è proprio lo sviluppo della banda larga. Ma più che ai numeri, Hastings è interessato alla prospettiva. Non a caso, tra i paesi dove Netflix è già presente ci sono l’Austria e il Costarica, dove il governo investe in fibra ottica. «Non è importante lo stato attuale della banda larga: è fondamentale la direzione». Da questo punto di vista, la tendenza dell’Italia è rassicurante: nel 2014 hanno avuto accesso a internet 40 milioni di persone, con un aumento del 2,7% rispetto al 2013, mentre la banda larga è passata dai 3,3 Mbps di fine 2012 ai 5,6 Mbps di fine 2014, coprendo il 61% della popolazione. Ma la velocità della banda diventa ininfluente, se la gente non è disposta a usare la propria carta di credito online.
In Italia i dati sono confortanti: risparmiamo su tutto, ma non sui media digitali e 15 milioni di italiani fanno già shopping online, il 43,5% dei cittadini connessi. «La fibra ottica sta crescendo ovunque, e internet sta diventando un diritto umano fondamentale, come l’acqua o la corrente elettrica», sostiene Hastings. Secondo il ceo di Netflix, entro 20 anni la tv si appoggerà interamente alla rete. Una prospettiva che piace molto ai consumatori e per niente ai fornitori, che vorrebbero far pagare anche i produttori per il traffico generato dai loro contenuti. Netflix, invece, sostiene la neutralità della rete: «Non siamo noi a utilizzare la rete, sono i clienti: noi mettiamo a loro disposizione i contenuti. Se un provider ha venduto a un cliente una velocità di 40 megabit, allora deve fornirla». D’altra parte i consumi di Netflix sono da record: negli orari di punta, in prima serata, gli streaming sulla piattaforma occupano il 30% della banda. Un anno fa, alcuni provider Usa hanno limitato lo streaming medio di Netflix fino a 1,5 Mbps: per non perdere qualità, l’azienda si è trovata a dover fare un accordo con i fornitori. «Un patto col diavolo», lo definisce Hastings. A quei tempi gli Stati Uniti non avevano ancora il regolamento sulla neutralità della rete, ma ora l’authority ha riclassificato la banda larga come servizio di pubblica utilità, stabilendo che i consumatori debbano avere accesso ai servizi che vogliono, indipendentemente dal provider scelto. Le trattative che stanno andando avanti da mesi in Italia, invece, sono legate alla disponibilità di Netflix sulle altre piattaforme. L’applicazione sarà preinstallata su smartphone e tablet forniti dagli operatori, su smart tv e console, e potrebbe essere inclusa anche nei decoder di Sky e Mediaset. I partner potranno includere Netflix nelle loro offerte, ma nessuno l’avrà in esclusiva.
Negli Stati Uniti il servizio raccoglie più spettatori di tutti i canali via cavo. Qualunque schermo deciderai di usare, ci sono ottime probabilità che Netflix diventi presto il canale più visto anche in Italia.