9 giugno 2015
APPUNTI PER GAZZETTA - GOVERNO BATTUTO SULLA SCUOLA IN COMMISSIONE AL SENATO
REPUBBLICA.IT
ROMA - Governo battuto sul parere di costituzionalità alla riforma della scuola. Con 10 voti contrari e 10 a favore il parere in commissione Affari Costituzionali del Senato non passa per il "voto determinante" di Mario Mauro senatore di Gal che nei giorni scorsi ha annunciato l’uscita dalla maggioranza. Il presidente Anna Finocchiaro ha votato "sì".
Niente maggioranza, dunque, in commissione. Per Mauro "la ’buona scuola’ è scritta male". E dice: "Fermiamoci un attimo tutti a riflettere perché va scritta meglio". Un risultato, quello di oggi, che l’esecutivo è costretto a incassare all’indomani della direzione Pd, dove il premier Matteo Renzi ha confermato di voler riaprire la discussione sul ddl dedicato alla scuola dopo l’annuncio dato sabato a Genova alla Repubblica delle Idee.
A commentare il voto a caldo è la presidente del gruppo Misto-Sel, Loredana De Petris, secondo la quale si registra così "la prima battuta d’arresto per una riforma che non piace a nessuno dei soggetti coinvolti ma che Renzi vuole imporre a tutti i costi. E’ ora che il governo si decida a discutere le sue scelte e a correggere i suoi errori in un democratico confronto con il parlamento. Noi continueremo la nostra battaglia per battere questa riforma pessima e dannosa per tutti".
Ma dal Partito democratico è la senatrice Doris Lo Moro a replicare: "Il Pd era rappresentato in commissione da tutti i suoi componenti che si sono espressi in maniera positiva sul parere da esprimere. E’ evidente che mancavano rappresentanti delle altre forze politiche di maggioranza. Si tratta a nostro parere, comunque, di un infortunio che non pregiudica in alcun modo il percorso della riforma della scuola a Palazzo Madama".
A tuonare, però, sono i parlamentari M5s delle commissioni Cultura di Camera e Senato: "Non ha voluto ascoltare il grido d’allarme del mondo della scuola, ora vediamo se Renzi farà finta di non sentire nemmeno il clamoroso tonfo della sua maggioranza qui in Senato. Questa riforma va fermata - continuano -, il governo ormai non può più ignorare né il dissenso aspro che viene da docenti e studenti, né il disagio sempre più diffuso che c’è anche in parlamento e nella sua maggioranza, come dimostra chiaramente questo voto. Delle finte aperture di Renzi non sappiamo che farcene, l’unica strada percorribile è procedere solo con le assunzioni e poi riscrivere da capo tutto il resto".
LA DIREZIONE DEL PD
ANNALISA CUZZOCREA SU REP DI OGGI
NAZIONALE - 09 giugno 2015
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LE SCELTE DEI PARTITI
LA GIORNATA
Renzi: “Pronto a trattare su scuola e riforme mi fermo se mi sfiduciate”
Il premier: regionali vinte, avanti fino al 2018 Cuperlo: ma le urne ci hanno detto di cambiare rotta
ANNALISA CUZZOCREA
ROMA .
Comincia in ritardo, la direzione pd. Tra i fischi e i buu di una quindicina di insegnanti che fuori protestano contro la riforma della scuola. Matteo Renzi entra al Nazareno da un ingresso secondario, e attacca subito.
Sottolinea che i sette candidati alle regionali non erano espressione della sua segreteria, ma dice chiaro, strappando il primo applauso: «Il giorno dopo le primarie non si scappa col pallone». Parla alla minoranza pd. «A Roberto Speranza che dice “Al 2018 arriviamo se il Pd resta unito” ricordo che io sono qui perché chi guidava allora il governo sosteneva che la legislatura dovesse durare due anni. Se fosse andata così, non so se oggi al G7 sarebbe andato uno del Pd». Un attacco a Enrico Letta, quindi. E poi: «Va approvato un codice di condotta interno. Non si possono accettare i diktat della maggioranza, ma neanche quelli della minoranza della minoranza. Non accetto lezioni di unità da chi non vota la fiducia al governo». Rivendica il lavoro fatto, il segretario: l’approvazione della legge elettorale, del falso in bilancio, della legge anticorruzione, degli ecoreati. Fa una premessa: «Abbiamo il governo di 17 Regioni su 20, difficile far capire all’estero che si pensa di aver perso. Tutto il sud è nelle nostre mani, è una sfida da far tremare i polsi». Quanto a Vincenzo De Luca, «non gli si potrà dire ti piace vincere facile». Perché il problema più grosso dell’ultima campagna elettorale, per Matteo Renzi, sono state le discussioni interne. «Abbiamo dato l’impressione di parlare solo di noi, mentre la destra batteva su temi che ci fanno male». L’immigrazione, il giustizialismo («Stefano Rodotà ha parlato di “garantismo peloso da prima Repubblica” per chi ricorda la presunzione di innocenza, non credo sia esperto di garantismo, certo è esperto di prima Repubblica»). Si dilunga su quella che deve essere la visione del Pd, il segretario. Disegna lo scenario di tre opposizioni: destra, coalizione sociale di Landini e Movimento 5 Stelle. Con una destra a trazione leghista che gioca la carta della paura, cui il premier rinfaccia ogni contraddizione. Con il movimento di Landini che definisce «coalizione asociale», «preferisco chiamarla così guardando certe facce. Se qualcuno pensa che il futuro siano Landini o Scalzone o Piperno, io dico auguri». E con un Movimento 5 Stelle che si «autoillude» di aver vinto, perché ora - dice Renzi - «è la terza forza del Paese», ma ha ormai uno zoccolo duro rafforzato dall’astensione. Sulla scuola, è pronto a «quindici giorni in più di discussione», ma non si può fare un decreto per l’assunzione dei precari e rimandare il resto. «Non può diventare un ammortizzatore sociale». Sulle riforme costituzionali, «la disponibilità a discutere è reale, ma per me il Senato non si può riunire tutti i giorni. Diciamo come il Bundesrat, una volta al mese. L’importante è che non dia la fiducia». Chiede una comunicazione migliore, appare preoccupato della poca efficacia in tv. Il primo a ribattergli è Gianni Cuperlo: «Matteo non ci spiegare più che Piperno e Scalzone non sono il nostro passato. Il mio passato è il Pci, è Berlinguer. Ma lì c’erano il professor Stefano Rodotà, sindacalisti, tante persone che non sono i nostri avversari. Il nostro avversario è la destra». E quindi: «il segnale mandato dalle urne è quello di cambiare rotta. La domanda che sale dal voto è: “Dove intendiamo portare il partito e il progetto?”».
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Per discutere tra di noi occorre avere un codice di condotta interno, che va approvato senza diktat
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LA SINISTRA PD
GOFFREDO DE MARCHIS SU REP DI STAMATTINA
NAZIONALE - 09 giugno 2015
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LE SCELTE DEI PARTITI
Mano tesa della minoranza: “Nessuna guerriglia contro il governo”
La tenuta della tregua si misurerà al Senato. A Palazzo Madama sono una ventina i senatori dem ribelli
GOFFREDO DE MARCHIS
ROMA .
«No alla guerriglia. Lasciamo governare Renzi, alla fine sarà lui a chiederci aiuto, ad avere bisogno della sinistra ». Prima della direzione le varie minoranze si riuniscono. Sono divise, sono alla ricerca di un leader, l’interlocutore unico che chiede da tempo anche Renzi, perché è molto chiaro che Gianni Cuperlo e Roberto Speranza ambiscono a quel ruolo. Una poltrona per due. Ma è evidente, magari con toni diversi, che fuori dal Pd la vita è difficile e questo lo sanno anche i ribelli. Anche Cuperlo è rimasto sorpreso dal parterre della coalizione sociale, con Maurizio Landini, Oreste Scalzone e Franco Piperno. Un’alternativa indigeribile tanto più per chi ha vissuto gli ultimi anni del partito comunista. Dall’altra parte, come ripete sempre l’ex capogruppo alla Camera, ci sono Salvini e Grillo ancora prima di Silvio Berlusconi. «Una fotografia inquietante », ripete Speranza. Allora l’obiettivo della sinistra Pd non può essere che quello di una faticosa sofferta ma obbligata convivenza con il premier- segretario.
È una tregua che tiene conto delle aperture di Renzi su scuola e riforma costituzionale. Un’apertura che l’ex sindaco di Firenze tiene viva promettendo un dibattito dopo l’estate sul significato di sinistra e sull’Europa, ovvero i temi più grandi sui quali ora i dissidenti concentrano le loro attenzioni denunciando la perdita di consensi delle regionali. «Perché il punto è che l’elettore di sinistra piano piano ti abbandona se tu continui a perseguire politiche di destra. E quando si voterà, anche nel 2018, c’è il rischio di una sconfitta», sentenzia Alfredo D’Attorre. È una tregua che passa dalla direzione di ieri sera ma che può sviluppi diversi in Parlamento. In particolare al Senato, dove i numeri della maggioranza sono veramente ridotti, a dispetto di quello che Renzi dice davanti all’organismo dem. Ci sono almeno 20 senatori ribelli pronti a far valere la loro forza e che oggi hanno difficoltà a rispondere alle indicazioni di qualcuno viste le differenze all’interno dell’opposizione a Renzi. C’è la linea Cuperlo, dichiaratamente virata verso la trattativa, della discussione aperta ma senza immaginare scenari di rottura definitiva con il premier. C’è invece la rotta di Speranza che attribuisce al leader la spaccatura del Partito democratico, che lo invita recuperare l’unità senza giocare su più tavoli, compreso quello dell’elettorato di destra. Alle spalle di Speranza, camminano Bersani, Gotor, lo stesso D’Attorre e alcuni dei senatori dissidenti che hanno in mano le sorti del governo.
D’Attorre dice di non vedere tutte queste differenze. «Nessuno di noi pensa all’ipotesi di far cadere il governo Renzi. È vero, esistono sfumature diverse. Ma questo punto è condiviso da tutti». Semmai l’obiettivo è cambiare Renzi e la sua politica, spostarla decisamente a sinistra se il premier ne è capace. Impresa non semplice, con un traguardo che interessa soprattutto l’ala che fa capo a Speranza, guardando al congresso del 2017, un tempo lunghissimo. Vedrà, la minoranza, se questa correzione si realizzerà già sulla scuola (si vota in commissione a Palazzo Madama a partire da oggi) e sulla riforma del Senato. Ma Renzi gioca sulle divisioni dei suoi avversari interni. Non è un caso che abbia citato e lodato Maurizio Martina, il ministro dell’Agricoltura che sovrintende a Expo 2015, un’esperienza di cui si è parlato pure al G7. «Noi stiamo cercando da tempo un interlocutore nel mondo dei Ds e della dissidenza - racconta il sottosegretario alle Comunicazioni Antonello Giacomelli, franceschiniano ma anche molto vicino a Luca Lotti -. Ci abbiamo provato con Cuperlo. Poi è stato il turno di Speranza. Ora speriamo che si possa avviare un dialogo costruttivo con la sinistra di Martina e Enzo Amendola». È una scommessa sui giovani che metta ai margini la cosiddetta vecchia guardia. Ma dopo le regionali diventa un progetto perché la sinistra abbia un peso nel Pd e sappia parlare all’elettorato in libera uscita. «Noi per primi sappiamo che non basta una Margherita più grande, anche molto più grande », ammette Giacomelli.
Sarà la partita che si svolge al Senato a dire se questo confronto si può realizzare. Se Renzi è davvero disposto a trattare la pace. E se la minoranza si limiterà a rivendicare un eventuale successo per le modifiche ai provvedimenti del governo.
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DAMIANO A GIOVANNA CASADIO
NAZIONALE - 09 giugno 2015
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LE SCELTE DEI PARTITI
L’INTERVISTA/CESARE DAMIANO
“Non ci sono aut aut ma il successo elettorale è sulle sabbie mobili”
GIOVANNA CASADIO
ROMA .
«Renzi abbandoni posizioni del tipo “vi asfaltiamo”, “tiriamo dritto” o come fanno alcuni ministri “discuto ma non tratto”... ci ascolti, ci vuole un coinvolgimento di tutti». L’ex ministro Cesare Damiano denuncia quello che non va nel Pd renziano. Molte cose devono essere corrette, però senza strappi: è la decisione presa da quella parte di “Area riformista” - che non ha seguito Roberto Speranza e Pier Luigi Bersani nella posizione dura contro l’Italicum - e che Damiano guida. La minoranza dem si è frammentata ulteriormente.
Damiano, la sinistra dem vuole dare l’aut aut a Renzi?
«Non ci sono aut aut, ma va affrontata un’analisi del risultato delle regionali. C’è stata una vittoria indubbia, perché su 12 Regioni andate al voto in un anno 10 sono oggi del centrosinistra, ma ...».
Ma?
«Non si può non vedere che è un successo costruito sulle sabbie mobili dell’astensione, perché un elettore su due non è andato a votare né si può ignorare che una parte del nostro popolo di sinistra si è rifugiato nell’astensionismo e che oltre al risultato negativo della Liguria, in altre regioni come l’Umbria abbiamo faticato a conquistare il risultato».
Come può recuperare il Pd il rapporto con gli elettori?
«Si recupera valorizzando la capacità di ascolto e abbandonando, ripeto, le posizioni tipo “vi asfaltiamo”, “tiriamo dritto” e quelle di alcuni ministri “discuto ma non tratto”».
A chi si riferisce, alla Boschi?
«Ascoltare non vuol dire assecondare, ma neppure ignorare le proposte. La capacità di raggiungere compromessi vale dentro il partito ma soprattutto nel rapporto con le parti sociali. Perché indebolire i corpi intermedi della società, come i sindacati, vuol dire fare rinascere le spinte corporative, che per loro natura sono ingovernabili. Come minoranza dobbiamo rivendicare con orgoglio quello che abbiamo ottenuto. Sui licenziamenti collettivi siamo invece stati sconfitti e il governo ha sbagliato. Ma modifiche ci sono state, adesso si tratta di procedere».
E quindi cosa chiedete?
«Sulla scuola, di correggere il ruolo dei presidi. Collegialità e cancellazione dell’idea del preside sceriffo. A me sta a cuore che il governo risolva il problema dei precari e trovi una soluzione graduale concordata. Noi non intendiamo demordere, così come la nostra battaglia su pensioni e lavoro continua con i decreti. Sulla riforma costituzionale ci vogliono miglioramenti ».
Colpa delle polemiche interne al partito se il messaggio del Pd non è passato, come dice Renzi?
«Un eccesso di polemica oscura i risultati che si conseguono grazie anche all’azione della minoranza dem. Per avere maggiore consenso ci vuole un coinvolgimento di tutti».
Cosa deve fare Renzi perché il Pd non salti, dopo gli addii di Civati, Pastorino, Cofferati e altri annunciati?
«Dentro il partito va raggiunto un accordo. Però se io non avessi votato la fiducia a un governo in cui c’è il Pd, uscirei dal partito».
Chi dissente o sgarra rispetto alle decisioni della maggioranza allora va sanzionato?
«Sono contrario a sanzioni e restrizioni, ma una forma di autodisciplina ci vuole. In un partito composito come il nostro, garantita la discussione, bisogna darsi un limite. Ovviamente senza ledere le prerogative costituzionali dei parlamentari ».
Ci vuole un codice di condotta interno? Chi dissente non deve essere ricandidato?
«Un partito di maggioranza relativa dovrà avere regole però anche dialettica e non dogmi. Chi dissente esprima la propria opinione. Ma ci vuole autodisciplina ».
C’è bisogno di un rafforzamento del partito?
«Ce ne è bisogno soprattutto nei territori dove c’è una debolezza e un abbandono silenzioso dei militanti e dei sostenitori».
L’organigramma del Pd va riscritto?
«Tutte le minoranze sono rappresentate in segreteria e al governo, spero che si prosegua su questa strada. Si dovrebbe mettere mano alle primarie perché non ci possiamo fare scegliere i candidati dagli altri. O le prevediamo per legge o almeno prevediamo l’albo degli elettori. Sono per regolare il traffico».
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Si devono cambiare le primarie, non ci possiamo fare scegliere i candidati dagli altri. O le prevediamo per legge o almeno creiamo l’albo degli elettori
GOFFREDO DE MARCHIS SU REP IERI
NAZIONALE - 08 giugno 2015
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LE SCELTE DEI PARTITI
L’ultima offerta del premier: cambiamo il Senato, senza melina
GOFFREDO DE MARCHIS
ROMA .
Cambiare verso alla riforma della scuola e alla legge costituzionale ma senza cedere sui tempi. Matteo Renzi si avvicina alla direzione del Pd di stasera, la prima dopo le regionali, con l’idea di evitare la resa dei conti, aprendo alla correzione di alcuni provvedimenti e dialogando con l’ala più moderata della minoranza. Frenare dunque non vuole dire rimandare l’approvazione dei testi. A cominciare dalla “buonascuola” sulla quale si comincia a votare in commissione domani. «Niente rinvii, neanche sull’abolizione del Senato», dice ai suoi fedelissimi negli sms dal G7 in Germania. Però i voti del Pd servono. Tutti o quasi tutti, in particolare a Palazzo Madama dove la maggioranza balla sul filo di 7-8 voti di vantaggio e la fiducia può diventare un azzardo dopo l’esperienza nella partita della legge elettorale.
Allora, il premier si lascia sfuggire che il suo intervento al cospetto del parlamentino Pd sarà «distensivo». Rivolto alla sinistra interna più disponibile al confronto: quella di Cuperlo e dei “responsabili” di Maurizio Martina, persino quella di Roberto Speranza, l’ex capogruppo che ha sbattuto la porta un mese fa. Diverso invece sarà l’atteggiamento verso l’ala irriducibile che Palazzo Chigi riconduce ormai a quattro nomi simbolici: Bersani, Bindi, Fassina e Gotor. A loro, senza citarli direttamente forse, verrà indirizzato un invito a scegliere con chiarezza da che parte stare. Col Pd e dunque dentro la discussione interna o ai margini del Pd pur senza minacciare misure disciplinari. Naturalmente, il progetto di tenere dentro le minoranze passa per le proposte concrete che il premier-segretario farà stasera.
Niente rinvii significa che non ha diritto di cittadinanza la proposta di alcuni dissidenti (Gotor e Tocci in testa) di stralciare le assunzioni dei precari nel comparto scolastico procedendo per decreto mentre il resto della riforma viene modificato preparando un percorso molto più lungo al Senato. Però è giusto lavorare, per modificare, sul potere dei presidi, sugli sgravi fiscali per i privati che investono negli istituti e sulle forme di regolarizzazione per i tanti precari rimasti fuori dal progetto governativo. Sono alcune delle richieste avanzate dai senatori ribelli e che saranno trasformate in emendamenti già in commissione. Su alcune di queste materie l’esecutivo darà parere favorevole e la riforma cambierà.
L’altro punto è l’abolizione del Senato. Un punto chiave per l’equilibrio democratico dopo l’approvazione dell’Italicum, secondo le minoranze in questo caso piuttosto compatte. Giorno dopo giorno, il premier ripensa alla forma rappresentativa del Senato così com’è stata disegnata nella legge Boschi. In poche parole, considera possibile ora immaginare un’assemblea elettiva e non di secondo grado, in modo che siano i cittadini a scegliere i neosenatori. Se la sinistra mostrerà in qualche modo una disponibilità a trattare, Renzi lavora a due possibili vie d’uscita. La prima: formare, al momento del voto per le regionali, un listino di consiglieri che si sa da prima che andranno a occupare le poltrone di Palazzo Madama. Una modifica che andrebbe fatta con legge ordinaria. La seconda, più radicale: ridiscutere l’intero articolo 2, quello che definisce l’elezione dei senatori. Vorrebbe dire che la riforma riparte dall’anno zero perché l’articolo 2 non è, a giudizio di quasi tutti i tecnici, più modificabile. Ma se la prospettiva è arrivare davvero al 2018, ovvero a fine legislatura, c’è anche lo spazio per ricominciare daccapo. Naturalmente la soluzione 1 è la preferita a Palazzo Chigi perché impedirebbe ritardi nel percorso riformatore. Ma c’è da parte di Renzi un’apertura al dibattito.
Quello che il segretario vuole evitare stasera è «una terapia di gruppo» su vittoria o sconfitta alle regionali. Non esiste discussione, il 5 a 2 racconta un successo e i problemi semmai vengono dopo questa presa d’atto. Per affermare il principio, il leader del Pd ha anche deciso di smentire qualsiasi ipotesi di rivoluzione al vertice del partito. «Squadra che vince non si cambia », è la sua posizione rispetto alle voci di rimescolamento di incarichi. Niente vicesegretario unico, salvo sorprese dell’ultima ora. Dovrebbero rimanere al loro posto sia Lorenzo Guerini sia Debora Serracchiani. Ettore Rosato, com’era annunciato fin dall’inizio, andrà con ogni probabilità a occupare il posto che fu di Speranza come capogruppo del Pd alla Camera. Semmai andrà rafforzato il controllo sull’organizzazione potenziando il rapporto con i cosiddetti territori. La sconfitta di Raffaella Paita e la vicenda contrastata di Vincenzo De Luca in Campania, dalle primarie in poi, sono servite da lezione.
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MARIA TERESA MELI SUL CORRIERE
Martedì 9 Giugno, 2015
CORRIERE DELLA SERA
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GUERZONI SU CDS DI STAMATTINA
Il premier vuole coinvolgere studenti e professori, non sinistra e sindacato
Aveva avvisato i suoi: in direzione non sarò buonista
Roma Lui la spiega così prima di andare in direzione: «Non sarò buonista». Del resto, questa non è la chiave del successo renziano, ma nemmeno di Renzi medesimo. Quella si chiama pragmatismo.
Perciò il premier preferisce avvertire i suoi che sarà «anche cattivista». Ma non è una sfida né una prova di forza. È una constatazione.
Renzi sa che la sua minoranza può rilasciare dichiarazioni di fuoco, fare interventi appassionati, ma che, al momento, non ha nessuna prospettiva fuori dal Pd e non può certo permettersi il lusso di far saltare il governo al Senato, nonostante le «minacce e i penultimatum». Anche perché correrebbe il rischio di mettere in moto un rimescolamento delle carte a Palazzo Madama che potrebbe limitare il suo potere di veto e rischierebbe invece di aprire le porte a nuovi contributi (ex grillini o ex forzisti) alla maggioranza di governo.
Perciò i suoi toni non sono più concilianti, o meglio, lo sono solo sono in apparenza, perché questo è ciò che serve adesso per far andare avanti il governo. Si pensi alla riforma prioritaria, quella sulla scuola, che Renzi ha spostato più in là nel tempo, ma a cui non vuole rinunciare. Ad alcune modifiche il premier ha già detto di no (alla commissione genitori-insegnanti che giudica i docenti, per esempio), ad altre ha aperto. Ma la sua, sia chiaro, non è una concessione alla minoranza del Pd e nemmeno alla Cgil. «Io non mi metto mica a trattare con il sindacato sul merito», è il suo paletto invalicabile. Insieme a un altro: «Non sto a perdere tempo per ogni articolo di ogni riforma con una micro-componente della minoranza della minoranza».
Insomma, ampio coinvolgimento degli studenti e dei docenti (meno dei genitori, ai quali il premier non vuole dare il diritto di promuovere o bocciare gli insegnanti), ma poche «beghe di partito». «Chi ha la responsabilità di mandare avanti questo Paese — è il ragionamento del presidente del Consiglio — a un certo punto deve tirare dritto. Nel senso che deve cercare il massimo coinvolgimento, ma se non ci riesce poi deve andare avanti con chi ci sta».
Magari, se la minoranza interna recalcitra, può essere sostituita anche da quei pezzi di Palazzo Madama che ormai non sembrano essere governati da nessuno. Gli ex grillini, per esempio. Ma pure dai senatori di Forza Italia, «che stanno implodendo, nonostante la vittoria di Toti in Liguria».
Anche sulla riforma del Senato, per esempio, le cui modifiche vengono chieste in toni quasi ultimativi dalla minoranza interna, Renzi ha le sue idee. E non le ha esposte adesso «perché se Speranza mi viene a dire che il risultato elettorale non è stato buonissimo, io dico: “Cavoli governiamo in diciassette regioni su venti, di che cosa parliamo?”. Io la modifica l’ho ipotizzata già ai primi di febbraio. Quindi non prendiamoci in giro».
Per farla breve, è sempre lo stesso premier pragmatico che conferma la stessa disponibilità... a patto che non venga venduta come un cedimento perché di quel possibile cambiamento parlò a molti, cronisti compresi, a febbraio e appuntarselo adesso come una medaglia dopo la sconfitta in Liguria è «ridicolo».
Già, la sconfitta. È un parola che il premier pronuncia con difficoltà. Anzi la nega: «Con una sconfitta così, spalmata sul territorio nazionale, andando alle politiche governeremmo l’Italia».
Ma non è il voto anticipato ciò che il premier vuole. Ed è questa l’unica vera rassicurazione che Renzi offre ai suoi avversari interni: «Io non penso neanche lontanamente alle elezioni anticipate, perché nei prossimi dodici mesi ci sarà la crescita economica e nessuno la vuole perdere». E allora? «E allora io a questo punto vado avanti con ancora più decisione e sono incavolato con chi vuole fermare le riforme, ancora di più se questo qualcuno viene dal mio partito». E allora, alla fine della festa, mediazione sì, solo «se fa andare avanti i provvedimenti che servono al Paese», sennò, come per la scuola, «si va avanti con chi ci sta».
ROMA L’idea di farsi dare la lezione da Speranza e compagni non gli va giù. E così, quando Matteo Renzi approda al Nazareno per la direzione in notturna, le parole scattano come sberle: «Basta diktat. Quando voti contro la fiducia non puoi farmi la ramanzina sull’unità... Non è possibile che ciascuno decida cosa votare in Parlamento, come fosse un menu a la carte ». Ce l’ha con la «minoranza della minoranza», con coloro che (da sinistra) lo accusano di aver perso le elezioni dopo aver fatto indigestione di «discussioni autoreferenziali».
Una tregua converrebbe a tutti, eppure Renzi ammonisce, attacca, replica duro ai dissidenti: «Io non ho un problema di numeri. La riforma della scuola posso approvarla domattina così com’è, a costo di spaccare il Pd. Ma lo riterrei un errore». Picchia duro e intanto apre, concede 15 giorni per ragionare sulla scuola. E poiché al 2018 vuole arrivarci davvero, sa che la riforma costituzionale è il vero scoglio per l‘unità del Pd e «l’elemento chiave» della legislatura. «Se facciamo una forzatura i numeri ci sono — avverte —. Ma siamo pronti a una riflessione, purché si chiuda». O si sta con chi vuole il superamento del bicameralismo paritario oppure con il comitato del no» di Grillo, Salvini, Berlusconi e della «coalizione asociale» di Landini, «destinata alla sconfitta». Sulla composizione del Senato si può dunque riflettere, ma alle sue condizioni e non a quelle di Bersani: «Chi vuole bloccare il percorso ci tolga la fiducia in direzione o in Parlamento».
Fuori, davanti alla sede del Pd, c’è tensione tra polizia e insegnanti. Dentro, va in streaming il primo confronto-scontro sulle Regionali. Roberto Speranza propone un patto fino al 2018, in cambio di modifiche su scuola e riforme. Ma il premier inizia con un attacco alla sinistra scissionista: «Quando si perdono le primarie non si scappa con il pallone...». La sua sinistra, rivendica, è l’unica che in Europa vince «ed è difficile spiegare che abbiamo perso le Regionali quando governiamo 17 regioni su 20 e tutto il Sud è nelle nostre mani».
Filtra il timore di doversela vedere alle Politiche con «tre opposizioni», con una destra che si ricompatta «con straordinaria abilità comunicativa su temi che ci fanno male». E allora basta con le polemiche, al Pd serve «un codice di condotta interno» che sanzioni, in futuro, chi voterà per disciplina di corrente snobbando la linea del Pd. La minoranza dichiara morto il partito della nazione? E lui lo resuscita, «nel senso del voler bene all’Italia». Poi bacchetta quei «dem» che farfugliano nei talk show: «Se non impariamo ad andare in tv continueremo a fare figuracce con quelli piu cattivi di noi... E non possiamo farci spaventare da tre troll su Twitter».
Ammette che in Umbria il partito ha sofferto, ma alla minoranza chiede «l’onestà intellettuale» di non paragonare le Regionali al 40,8% delle Europee: «L’analisi del voto non si fa con il nasometro». Però i problemi ci sono e non li nasconde: «In Veneto non vinceremo mai se continuiamo con una linea fiscale di persecuzione». Enzo De Luca applaude e il premier lo difende, anche perché le sfide che lo aspettano in Campania «fanno tremare i polsi». E quando tocca a lui, il governatore fa uno show contro Bindi e Antimafia: «Iniziativa volgare, diffamatoria, infame, eversiva...». Renzi chiude e Bersani se ne va, muto. Cuperlo insiste: «Il Pd cambi rotta». Fassina rimprovera a Renzi «l’incapacità di guardare in faccia la realtà». E D’Attorre rincara: «Relazione lunare, con aperture tutte da verificare».
Monica Guerzoni