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 2015  giugno 08 Lunedì calendario

MARCIARE DIVISI NON PAGA TUTTE LE PARTITE PERDUTE DAL SINDACATO SENZA UNITÀ

Carmelo Barbagallo, classe 1949, segretario generale della Uil da quasi un anno, metalmeccanico di formazione, è un po’ l’ultimo dei soldati giapponesi. L’ultimo combattente per una causa che appare ormai persa. Barbagallo pensa che questa sia ancora la stagione dell’unità sindacale fra le tre grandi confederazioni, Cgil, Cisl e Uil. Nella sede del suo sindacato di Via Lucullo a Roma ha deciso di riservare la Sala Arturo Chiari, a pochi metri dal suo ufficio, alle prossime riunioni delle tre segreterie confederali. L’ ha fatta ristrutturare, è stato messo un grande tavolo intorno al quale potrebbero sedere 25 persone, tanti sono i membri delle tre segreterie nazionali. Da mesi quella stanza viene regolarmente spolverata, tenuta in ordine, aerata. Ma non ha ancora mai ospitato un vertice di Cgil, Cisl e Uil. Dovrebbe essere la sala delle riunioni unitarie, per ora è diventata la stanza delle sedie vuote. L’unità sindacale non è all’ordine del giorno. Le colleghe di Barbagallo, Susanna Camusso e Annamaria Furlan, non ne parlano praticamente mai. Certo parlarne contro nei palazzi sindacali è come bestemmiare, e allora non si fa. Ma il coro a favore dell’unità sindacale ha smesso da tempo di cantare. I sindacati in tutto il mondo occidentale sono in crisi, “accerchiati”, come ha scritto Guido Baglioni, dai processi di globalizzazione dell’economia e delle imprese, e dalla frantumazione del lavoro, dei luoghi di lavoro e delle tipologie contrattuali.
Poi è arrivata anche la lunga crisi che in Italia si è tradotta in quasi sette anni di recessione. Il rischio di una ripresa senza lavoro è del tutto evidente. Qualcuno già la intravede negli ultimi dati dell’Istat, per quanto positivi, sugli occupati e disoccupati nel primo trimestre dell’anno. E in un Paese che ha perso un quarto della sua capacità produttiva, con un tasso di disoccupazione giovanile superiore al 40 per cento, l’aumento delle diseguaglianze e della povertà, il mestiere del sindacalista non è affatto semplice. Il tasso di sindacalizzazione da noi resta, stando alle auotocertificazioni sindacali (da prendere con qualche cautela), ancora piuttosto elevato: intorno al 40 per cento. Ma non vuol dire affatto che i sindacati godano di buona salute, al di là dell’andamento delle entrate finanziarie. La crisi della rappresentanza (vale anche, se non di più, per le controparti imprenditoriali) è assai profonda. D’altra parte in tutti i sondaggi i sindacati si collocano nel gruppo di fondo quanto alla fiducia che nutre nei loro confronti l’opinione pubblica. Nella campagna per la “disintermediazione” il premier Matteo Renzi ha messo nel mirino soprattutto i sindacati. Quando ha detto di auspicare il sindacato unico ha probabilmente sbagliato espressione perché (per fortuna) il pluralismo sindacale è garantito dall’articolo 39 della Costituzione (meglio avrebbe fatto a parlare di sindacato unitario), ma ha messo il dito in una delle piaghe: quello dell’eccessiva parcellizzazione della rappresentanza sociale, dove le logiche corporative di mestiere finiscono per prevalere sull’interesse generale di chi lavora. Nella Sala Verde al terzo piano di Palazzo Chigi, quando il governo (contravvenendo in parte alla sua linea anti-concertativa) ha convocato la riunione sulla “Buona scuola” dopo lo sciopero generale del settore, si sono presentate ben 22 sigle sindacali. Decisamente troppe (e la colpa non è ovviamente di Cgil, Cisl, Uil) e una conferma di quel che pensa Renzi: serve una riforma del sindacato, se arriverà presto un’auto- riforma bene, altrimenti la prima mossa la farà il governo. Esattamente lo schema che ha portato dopo decenni di dibattito infruttuoso alla legge sulla riforma delle banche popolari, dove anche lì si concentravano resistenze conservatrici. Lo show down è in programma questa settimana. Tra domani e dopodomani il Consiglio dei ministri dovrebbe dare il via libera agli ultimi decreti del Jobs act. Sembra molto probabile che resteranno fuori tre argomenti: l’introduzione in via sperimentale del salario minimo legale, la riforma della rappresentanza sindacale e quella del sistema di contrattazione. Dall’esecutivo dovrebbe arrivare una sorta di ultimatum rivolto alle parti sociali: vi do un po’ di tempo (si parla di tre mesi) entro il quale cercate di trovare un’intesa tra voi, se non ci riuscite interverrò io con una o più leggi. Una sfida al sindacato che potrebbe rientrare in gioco almeno a livello istituzionale. Anche in Germania e Gran Bretagna i sindacati fanno parte della commissione che fissa il salario minimo. Certo se ci fosse l’unità sindacale sarebbe tutto molto più semplice, ma non c’è e questo rende il cammino davvero incerto. Dall’altra parte il fronte imprenditoriale è ugualmente diviso: per esempio la Confindustria ha siglato con i sindacati l’intesa sulla rappresentanza ma altrettanto non ha fatto la Confcommercio, per non parlare delle altre associazioni datoriali. L’ipotetico percorso unitario è oggi frenato da diversi fattori. Intanto ce n’è uno che non va mai sottovalutato: l’azione di interdizione che, senza troppo apparire, esercitano gli apparati, centinaia di funzionari che avrebbero tutto da perdere da una eventuale unità. Una fusione sindacale, infatti, comporterebbe un taglio netto delle strutture burocratiche. Ma fondere culture diverse non è detto che funzioni come spesso succede nei grandi merger tra aziende. Perché oggi la Cgil da una parte, la Cisl dall’altra insieme sostanzialmente alla Uil, rappresentano modelli sindacali diversi. La Cgil avrà pure rinunciato (non tutta, comunque) all’idea del sindacato di classe (Cisl e Uil pensano al sindacato degli iscritti) ma continua ad avanzare una sua proposta sul piano strettamente politico, con una sorta di autosufficienza rispetto alla politica. L’arrivo del bipolarismo ha portato Corso d’Italia a scegliere il campo e a mettersi costantemente in competizione con i partiti della sinistra, soprattutto con il principale partito della sinistra, dal Pds fino al Pd ora renziano. Per anni si è coltivata l’idea del “Partito del lavoro” che nascesse anche con il contributo dei sindacalisti. Nello scorso weekend Maurizio Landini, leader della Fiom, ha battezzato la sua “Coalizione sociale” che non sarà un partito ma prima o poi potrebbe diventarlo. Di certo è un movimento politico, non sindacale e non può essere lo slogan “Unions” a farlo pensare. La Fiom non solo non ha sottoscritto gli accordi con la Fiat Chrysler ma non ha riconosciuto nemmeno il protocollo interconfederale sulla rappresentanza, infine si prepara a presentare una piattaforma autonoma per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici destinato a chiudersi un’altra volta a firme separate. Questa Fiom movimentista è una spina nel fianco della Cgil. Lo scontro si riproporrà alla prossima conferenza di organizzazione in autunno, quella che modificherà le regole per la selezione dei gruppi dirigenti ma non come avrebbe voluto Landini attraverso il voto diretto della base, bensì con un compromesso che non cancella gli antichi meccanismi di cooptazione. Dunque senza l’unità nella Cgil è pressoché impossibile pensare all’unità di Cgil, Cisl e Uil. Nella storia sindacale l’epicentro dell’azione unitaria è sempre stata la categoria del metalmeccanici, basti pensare al lungo autunno caldo; oggi, Corso Trieste nonostante esponga ancora la vecchia insegna della Flm (Federazione lavoratori metalmeccanici), è l’epicentro delle divisioni. E proprio tra i metalmeccanici non si possono escludere altri strappi. Sergio Marchionne guida ormai un gruppo apolide. Capire perché alle trattative della “controllata” italiana si presentino in sette sigle sindacali gli è difficile. Lui ha davvero lanciato la proposta del sindacato unico dell’auto come l’Uaw statunitense. La Fismic, sindacato aziendalista, ha detto sì e proposto alla Fim di cominciare a ragionarci sopra. Il giovane leader dei metalmeccanici cislini, Marco Bentivogli, che entro l’anno guiderà il sindacato unitario dell’industria della Cisl, ha deciso di andare laicamente a guardare. E ha detto: «La mistificazione “pluralismo sigle uguale pluralismo sindacale” è abnorme. La Costituzione prevede la base democratica degli statuti dei sindacati, ma è noto che in molti casi la “democraticità degli statuti” che prevede l’articolo 39 è tutta teorica. Molti sindacatini sono nati da scissioni per incompatibilità statutarie dei dirigenti che per continuare a fare i sindacalisti hanno fondato nuovi sindacati con regole interne permissive. Il paradosso italiano è che vi sono molti settori in cui è in caduta libera la sindacalizzazione, calano gli iscritti, ma aumentano sindacati e sindacalisti». Il Re è nudo.
Roberto Mania, Affari&Finanza – la Repubblica 8/6/2015