Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  giugno 09 Martedì calendario

IL MARONI BIFRONTE, STORIA DI UN’ENIGMA

Bifronte è sempre stato: c’è il Roberto Maroni pacato e istituzionale, uomo dello Stato e difensore dell’antimafia, un po’ blues brother quando inforca gli occhiali scuri e suona l’organo Hammond nel gruppo soul Distretto 51 e perfino un po’ di sinistra (tanto che dal corteo del 25 aprile 1994 a Milano si levò il grido: “Maroni-Maroni / arresta Berlusconi”); e c’è il Roberto Maroni truce e padano che nel 2005 propone di tornare alla lira e dal palco di Pontida nel 2008 urla: «La sinistra italiana ci rompe le palle», difendendo l’introduzione del reato d’immigrazione clandestina. Il Bobo che nel 2009 aggiunge: «Ebbene sì, vogliamo le ronde: ci hanno accusato di voler far tornare le camicie nere, ma noi guardiamo alla sostanza, non alle chiacchiere».
Oggi, dopo aver compiuto il miracolo di scippare la Lega a Umberto Bossi azzoppato dallo scandalo Belsito, sente di essere oscurato dalle felpe di Matteo Salvini. E allora cambia rotta, sperando di essere salvato nei prossimi congressi del Carroccio (quello della Lombardia, del Veneto e poi, ad autunno, la segreteria federale). Riscopre gli slogan anti-immigrati. Torna ai toni duri: «Ridurrò i trasferimenti regionali ai sindaci che accolgono nuovi migranti». Dimenticando di aver messo la sua firma, quando era ministro dell’Interno, sotto un documento che impegnava le Regioni a distribuirseli, i migranti.
Maroni è così. Passa dalle attestazioni di fedeltà eterna al Senatur, alle scope con le quali lo fa fuori in una notte. Era il 2012 quando a Bergamo i Barbari Sognanti impongono Bobo alla segreteria di un partito perso tra i diamanti in Tanzania del tesoriere Francesco Belsito e le lauree in Albania di Renzo Bossi il Trota.
Per 18 mesi, Maroni guida il Carroccio in modo ondivago. Poi, nel dicembre 2013, lo consegna al Giovane Padano con le casse prosciugate: dalle consulenze e dalla fantomatica campagna “Prima il Nord”, poi liquidata in una settimana con lo sbarco di Salvini a Napoli e nel Sud.
«È uno che tira il sasso e nasconde la mano», lo descriveva già nel 1995 Umberto Bossi. Pochi mesi prima, l’aveva rimesso al suo posto dal palco di Milano durante un congresso straordinario. Maroni venne fischiato e insultato perché era ministro e vicepresidente del governo Berlusconi che Bossi aveva deciso di far cadere. «Chi tradisce sarà spazzato via dalla faccia della terra. Sappiamo che c’è stato il mercato delle vacche e un po’ di gente ha preso la stecca», tuonò il Senatur al Palatrussardi. Poi aggiunse il perdono: «Una Lega bis, caro Roberto, sarebbe solo uno specchietto per le allodole. Il coraggio, se non lo si ha, non si può acquistare al supermercato». Bobo rischiò il linciaggio e fu scortato da Roberto Calderoli fuori dalla sala. La mattina dopo salì su un volo per le Maldive e ci rimase per due settimane, accompagnato dalla moglie, Emilia Macchi, che l’ha sempre sostenuto, seppur a distanza. Almeno fino a ieri, quando le voci di simpatie per altre donne si sono tradotte in realtà nelle intercettazioni della procura di Milano.
Maroni ha conosciuto Emi, la futura moglie, in quarta ginnasio. Bobo aveva 24 anni e una vita già perfettamente inquadrata. Casa, lavoro, famiglia, nessuna sbavatura. Ma gli era rimasta la scintilla della politica. A 16 anni, nel 1971, aveva militato in un gruppo marxista-leninista e frequentato Democrazia proletaria. Fino al 1979, l’anno della folgorazione: Maroni conosce Bossi e inizia una «collaborazione politica», come racconterà l’Umberto. Poi sposa Emi, laureata alla Bocconi e impiegata all’Aermacchi (fondata, tra gli altri, dal padre Aleandro) e si adagia nella vita di provincia. Lavora all’ufficio legale del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, poi a quello della Banca del Monte. Alle quattro del pomeriggio lascia l’ufficio, torna a casa, cena alle 19 e alle 20 suona con il suo gruppo, il Distretto 51. Si diletta con l’organo Hammond, ma la passione vera è per il sassofono. Nel 1984 la Avon gli propone di diventare il responsabile legale dell’azienda.
Bossi lo incastra nel 1990, quando lo fa eleggere consigliere comunale a Varese, tra i primi rappresentanti della Lega Lombarda a entrare nelle istituzioni. Nel 1992 fa il suo ingresso alla Camera e subito diventa presidente del gruppo leghista.
Dopo oltre vent’anni nei Palazzi romani, Maroni ha conquistato la Lombardia grazie all’apporto fondamentale del Pdl di Silvio Berlusconi e del patto di non belligeranza faticosamente raggiunto con l’ex presidente Roberto Formigoni. Al Pirellone Bobo ha portato molti dei compagni di viaggio. Vecchi e nuovi. Nell’aprile 2013 apre le danze nominando due membri della sua band, Giovanni Daverio e Giuseppe Rossi, a capo dell’assessorato alla famiglia il primo e al polo ospedaliero di Lodi il secondo. Poi il supercontratto alla storica “porta-silenzi” da Montesarchio, Isabella Votino, e all’amica di lei, Patrizia Carrarini, che per la sola campagna elettorale regionale incassa 199 mila euro e ora è dirigente al Pirellone.
Ma oggi il suo problema si chiama Mariagrazia Paturzo, l’amica che ha raccomandato per una consulenza a Expo e che voleva a tutti costi viaggiasse con lui in Giappone. Secondo il pm di Milano Eugenio Fusco è concussione. A difendere Bobo, in aula ci sarà l’avvocato Domenico Aiello, che Maroni ha imposto anche nel cda di Expo. La legge Severino, in caso di condanna, lo caccerebbe dal grattacielo della Regione. Ma Bobo ha intenzione di vendere cara la pelle. Eccolo dunque fare fronte con quel Salvini che ha conquistato a colpi di felpe il partito che il Maroni con le scope aveva sfilato a Bossi.