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 2015  giugno 07 Domenica calendario

IN RETE TUTTI I TUOI DATI PERSONALI, LA NUOVA MINACCIA SI CHIAMA DOXING

Può essere usata contro chiunque, è l’arma più temuta degli hacker ed è tanto subdola da poter essere utilizzata a centinaia di chilometri dalla vittima. Ha anche un nome accattivante, doxing, a cui qualcuno aggiunge una seconda x, doxxing, per motivi ancora poco chiari. Si tratta della pratica di scovare e pubblicare in rete i dati personali di una persona (dox sta per docs, documenti) e, secondo l’istituto giornalistico statunitense Poynter, rappresenta un nuovo rischio anche per reporter e giornalisti: «Un nuovo metodo di intimidazione e abuso».
Tutto è nato per goliardia: i primi, rudimentali casi di doxing servivano a ordinare centinaia di pizze d’asporto e recapitarle a casa dell’ignara vittima. Poi è arrivato l’hacktivism (crasi tra hacker e attivismo) di associazioni come Anonymous, LulzSec e AntiSec impegnate in campagne sociali e politiche, che utilizzano il doxing per colpire, di volta in volta, «i cattivi» della società contemporanea. Lo scorso novembre, durante gli scontri a Ferguson per la morte del giovane afroamericano Michael Brown, Anonymous ha rivelato le identità dei membri del Ku Klux Klan che aveva minacciato i manifestanti. Relativamente semplice eppure così potente, il doxing ha cominciato così il suo percorso di diffusione basandosi sempre sul principio — caro agli hacker e a diverse sottoculture di internet — dell’anonimato. Da qui lo scontro violento con i giornalisti e la confusione, che spesso viene alimentata, tra i due campi. Quando nel marzo 2013 il settimanale «Newsweek» ha pubblicato un articolo nel quale svelava la presunta identità di Satoshi Nakamoto, il nome dietro al quale si cela il creatore dei Bitcoin — una forma di valuta digitale totalmente indipendente dalle banche mondiali — alcuni commentatori hanno definito la storia un atto di doxing. In realtà si trattava di una normale inchiesta giornalistica (rivelatasi poi infondata), fondamentalmente distante e diversa dalla pubblicazione di informazioni personali con l’obiettivo di mettere in difficoltà la vittima, per vendetta o per una forma morbosa di divertimento.
Un simile dibattito si è sollevato quando nel 2012 l’ex giornalista di «Gawker» Adrian Chen ha rivelato l’identità di «Violentacrez» — nome associato alla pedopornografia online e a un
giro di foto di minorenni pubblicate sul sito di social news Reddit. Molti redditors hanno definito l’operazione un attacco alla sacralità dell’anonimato online, quando si trattava, anche in questo caso, di una indagine giornalistica «vecchio stile».
Un nuovo inquietante episodio — in grado di spiegare il monito di Poynter — ha coinvolto la giornalista Amanda Hess. Nel gennaio del 2012 Hess ha pubblicato una storia sul trattamento riservato alle donne in alcune sezioni del web: minacce, insulti sessisti e una costante discriminazione. L’articolo, intitolato «Perché le donne non sono benvenute su internet», ha cambiato per sempre la vita dell’autrice, che è stata perseguitata per mesi da telefonate sospette, minacce di morte e di stupro, da centinaia di tweet anonimi che contenevano indicazioni precise sul suo indirizzo e una lunga serie di intimidazioni dirette. Hess, colpevole di aver denunciato la misoginia del web, era stata «doxata»: alcuni suoi dati erano stati resi pubblici e lei, senza alcuna protezione, era diventata una vittima facile.
Una sorte tragica che sta diventando prassi per molte donne attive in rete. È quello che è successo anche a Zoe Quinn e Anita Sarkeesian, rispettivamente una programmatrice e una studiosa di videogame, i cui lavori non sono stati apprezzati da un certo ambiente del gaming (il mondo dei videogiochi), tradizionalmente composto da uomini, che è corso al contrattacco. Anche in questo caso, minacce di morte, strani furgoni neri posteggiati per ore fuori dalle loro case, informazioni personali e finanziarie d’un tratto disponibili a tutti, online.
A rendere l’emergenza ancora più grave c’è infine il ritardo legislativo nel punire questo genere di attacchi. Zoe Quinn ha raccontato come la valanga di minacce di morte e stupro che continua a ricevere via Twitter e posta elettronica non risulti automaticamente una prova, e che molti poliziotti non sembrano in grado di capire l’entità della minaccia, al punto che — più di una volta — la programmatrice si è sentita rispondere: «Beh, non vada più su Twitter, allora!».
Non è così facile, purtroppo, e anche per questo il doxing comincia a fare paura.
@pietrominto Può essere usata contro chiunque, è l’arma più temuta degli hacker ed è tanto subdola da poter essere utilizzata a centinaia di chilometri dalla vittima. Ha anche un nome accattivante, doxing, a cui qualcuno aggiunge una seconda x, doxxing, per motivi ancora poco chiari. Si tratta della pratica di scovare e pubblicare in rete i dati personali di una persona (dox sta per docs, documenti) e, secondo l’istituto giornalistico statunitense Poynter, rappresenta un nuovo rischio anche per reporter e giornalisti: «Un nuovo metodo di intimidazione e abuso».
Tutto è nato per goliardia: i primi, rudimentali casi di doxing servivano a ordinare centinaia di pizze d’asporto e recapitarle a casa dell’ignara vittima. Poi è arrivato l’hacktivism (crasi tra hacker e attivismo) di associazioni come Anonymous, LulzSec e AntiSec impegnate in campagne sociali e politiche, che utilizzano il doxing per colpire, di volta in volta, «i cattivi» della società contemporanea. Lo scorso novembre, durante gli scontri a Ferguson per la morte del giovane afroamericano Michael Brown, Anonymous ha rivelato le identità dei membri del Ku Klux Klan che aveva minacciato i manifestanti. Relativamente semplice eppure così potente, il doxing ha cominciato così il suo percorso di diffusione basandosi sempre sul principio — caro agli hacker e a diverse sottoculture di internet — dell’anonimato. Da qui lo scontro violento con i giornalisti e la confusione, che spesso viene alimentata, tra i due campi. Quando nel marzo 2013 il settimanale «Newsweek» ha pubblicato un articolo nel quale svelava la presunta identità di Satoshi Nakamoto, il nome dietro al quale si cela il creatore dei Bitcoin — una forma di valuta digitale totalmente indipendente dalle banche mondiali — alcuni commentatori hanno definito la storia un atto di doxing. In realtà si trattava di una normale inchiesta giornalistica (rivelatasi poi infondata), fondamentalmente distante e diversa dalla pubblicazione di informazioni personali con l’obiettivo di mettere in difficoltà la vittima, per vendetta o per una forma morbosa di divertimento.
Un simile dibattito si è sollevato quando nel 2012 l’ex giornalista di «Gawker» Adrian Chen ha rivelato l’identità di «Violentacrez» — nome associato alla pedopornografia online e a un
giro di foto di minorenni pubblicate sul sito di social news Reddit. Molti redditors hanno definito l’operazione un attacco alla sacralità dell’anonimato online, quando si trattava, anche in questo caso, di una indagine giornalistica «vecchio stile».
Un nuovo inquietante episodio — in grado di spiegare il monito di Poynter — ha coinvolto la giornalista Amanda Hess. Nel gennaio del 2012 Hess ha pubblicato una storia sul trattamento riservato alle donne in alcune sezioni del web: minacce, insulti sessisti e una costante discriminazione. L’articolo, intitolato «Perché le donne non sono benvenute su internet», ha cambiato per sempre la vita dell’autrice, che è stata perseguitata per mesi da telefonate sospette, minacce di morte e di stupro, da centinaia di tweet anonimi che contenevano indicazioni precise sul suo indirizzo e una lunga serie di intimidazioni dirette. Hess, colpevole di aver denunciato la misoginia del web, era stata «doxata»: alcuni suoi dati erano stati resi pubblici e lei, senza alcuna protezione, era diventata una vittima facile.
Una sorte tragica che sta diventando prassi per molte donne attive in rete. È quello che è successo anche a Zoe Quinn e Anita Sarkeesian, rispettivamente una programmatrice e una studiosa di videogame, i cui lavori non sono stati apprezzati da un certo ambiente del gaming (il mondo dei videogiochi), tradizionalmente composto da uomini, che è corso al contrattacco. Anche in questo caso, minacce di morte, strani furgoni neri posteggiati per ore fuori dalle loro case, informazioni personali e finanziarie d’un tratto disponibili a tutti, online.
A rendere l’emergenza ancora più grave c’è infine il ritardo legislativo nel punire questo genere di attacchi. Zoe Quinn ha raccontato come la valanga di minacce di morte e stupro che continua a ricevere via Twitter e posta elettronica non risulti automaticamente una prova, e che molti poliziotti non sembrano in grado di capire l’entità della minaccia, al punto che — più di una volta — la programmatrice si è sentita rispondere: «Beh, non vada più su Twitter, allora!».
Non è così facile, purtroppo, e anche per questo il doxing comincia a fare paura.