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 2015  giugno 07 Domenica calendario

OBIEZIONE DI COSCIENZA TRA FAUTORI E OPPOSITORI

Dopo l’intervento critico di Panebianco sull’opportunità di riabilitare i soldati giustiziati durante la Grande Guerra, ho letto la replica di Cazzullo, che giustamente difende i numerosissimi soldati vittime di esecuzioni sommarie, avvenute con estrazione a sorte. Ma non c’è un’altra categoria da difendere, quella degli obiettori di coscienza? O tutti i renitenti alla leva vanno considerati disertori e traditori?
Pierpaolo Proverbio

Caro Proverbio,
Alle origini, l’obiezione di coscienza è un fenomeno prevalentemente religioso, diffuso in quelle piccole congregazioni protestanti che si staccano dalla «casa madre» (la Chiesa anglicana, la Chiesa evangelica luterana, la Chiesa episcopale americana) e adottano una interpretazione radicale di alcune scritture. Ma diventa rilevante sul piano politico e sociale soltanto quando i governi adottano la coscrizione obbligatoria: nei Paesi dell’Europa continentale dopo la rivoluzione francese, nei Paesi anglo-sassoni dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale. Non piace, naturalmente, ai sovrani dell’Ancien Régime, ma non piace neppure alle Repubbliche democratiche per cui la difesa della patria è un obbligo morale che deve accomunare tutti i cittadini.
Il fenomeno comincia a diffondersi quando è legittimato dalle correnti pacifiste che cominciano a prendere corpo nel periodo fra le due grandi guerre del Novecento. All’Università di Cambridge, nel 1927, l’Unione degli Studenti propose un dibattito sulla mozione «Una pace durevole sarà garantita soltanto se il popolo d’Inghilterra adotterà un pacifismo senza compromessi». La mozione fu approvata da 213 voti contro 130. Ebbe maggiore risonanza nel febbraio del 1933 una mozione degli studenti di Oxford ancora più esplicita: «Questa assemblea proclama che in nessuna circostanza combatterà per il re e per la patria». I sì furono 275 e i no 153. L’avvenimento ebbe una larga eco sulla stampa internazionale ed esercitò una certa influenza sulla politica estera del governo britannico in quel periodo. Sei anni dopo, quando la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania, gli umori della pubblica opinione erano cambiati. Molti di quei 275, probabilmente, combatterono e morirono per il loro Paese.
Come vede, caro Proverbio, il pacifismo è soggetto al cambiamento delle circostanze e può essere in qualche caso addirittura strumentale. I primi movimenti antinucleari, dopo la fine della Seconda guerra mondiale (quando l’Urss non aveva ancora la bomba atomica) erano teleguidati da Mosca e organizzati con la collaborazione delle federazioni comuniste. Potevano essere considerati genuinamente pacifisti? Erano pacifisti, all’inizio degli anni Ottanta, coloro che manifestavano contro l’installazione di missili americani in cinque Paesi dell’Alleanza Atlantica? Avevano manifestato quando l’Urss, qualche anno prima, aveva installato gli SS20 nei territori occidentali del suo enorme territorio?
Non è difficile comprendere, quindi, perché l’obiezione di coscienza, sino a quando il servizio militare era generalmente obbligatorio, abbia spesso sollevato dubbi e riserve. Se in democrazia tutti devono avere eguali diritti e doveri, è giusto risparmiare a qualcuno l’obbligo di rispondere a quello che viene retoricamente definito il «richiamo della patria»? La soluzione più frequentemente adottata, prima del ritorno all’esercito di mestiere, fu quella assegnare l’obiettore a un servizio civile non meno impegnativo del servizio militare. Oggi vi è nostalgia del servizio militare soltanto fra quelli che l’hanno già fatto e non esiste un consistente «partito della leva». Obiettare o no è diventato sostanzialmente irrilevante. Redimere gli obiettori della Grande guerra quando è impossibile conoscerne il numero e le motivazioni, sarebbe inutilmente complicato.