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 2015  giugno 08 Lunedì calendario

KATRINA, LA LEZIONE DIMENTICATA DELL’URAGANO

La domenica mattina la chiesa di Saint Augustin è piena, c’è perfino qualche turista: è una rara messa gospel cattolica, tanta musica così, con tanto di trombone e sax, di solito si trova solo in quelle protestanti. Dopo l’uragano la diocesi la voleva chiudere. Meglio tenere aperte quelle nei quartieri più ricchi invece che questa, dove di bianchi non se ne vedono e per raccogliere qualche soldo il cesto delle offerte deve passare due volte. All’uscita un gigante nero in salopette di jeans vende t-shirt, si chiama Aaron Blanks, conosce tutti, organizza barbecue jazz che i turisti imbottigliati nel Quartiere Francese si sognano, sostiene di aver contribuito alla serie tv della Hbo dedicata al quartiere, il Tremé. Una serie che nessuno guarda a New Orleans, perché, ti spiegano, “l’ultima cosa di cui abbiamo voglia è vedere ancora l’uragano anche in televisione”.
Eppure tutta la città è costruita, anzi ri¬costruita nei mattoni e nello spirito, attorno a Katrina, l’uragano che dieci anni fa ha causato danni per 180 miliardi di dollari e 1833 morti in tutto il Sud degli Stati Uniti. L’80 per cento della città più famosa della Louisiana, circondata dalle paludi e affacciata sul Mississippi, è finito sott’acqua. Oltre 3000 persone si sono rifugiate nell’università, migliaia nel Mercedes Superdome, l’enorme cupola che accoglie i turisti in arrivo dall’aeroporto, allora piena di crepe e oggi sfavillante simbolo della ritrovata forza della città. Nel quartiere dell’università, a un quarto d’ora dal centro si estende un prato curatissimo, tra due file di villette: lì, per giorni, si sono accumulate le montagne di rifiuti che l’acqua strappava alle case, oggi ci giocano i bambini.
Là dove c’erano i rifiuti
Per trovare ancora una traccia di quello che è successo Bobby Dupont, professore di Storia all’università di New Orleans, ti porta su un ponte, a Orpheum Avenuue, l’argine è di due colori diversi, ne hanno dovuto ricostruire uno dopo il cedimento improvviso nel 2005. In quel canale, scavato da irlandesi che costano meno degli schiavi (se muore uno schiavo si perde l’investimento), l’acqua della tempesta si era infilata acquistando velocità fino a sfondare le protezioni e inondare zone che in teoria dovevano essere sicure. “La mia assicurazione sulla casa è passata da 1800 a 5000 dollari all’anno, più altri 500 per un’altra assicurazione contro la piena”, spiega il professor Dupont. E la colpa non è dei francesi che nel 1718 hanno fondato la città in un posto cruciale per gli scambi commerciali e per controllare con pochi cannoni un terzo del continente (chi è sul Mississippi comanda) ma parecchio ostile: una terra sotto il livello del fiume, quasi solo paludi da bonificare, terreni di solidità incerta fatti solo di depositi fluviali.
No, gli argini di New Orleans si sono rotti in 53 punti in quello che è considerato il più grave disastro di ingegneria civile nel mondo occidentale. La forza dell’uragano è stata aumentata in modo esponenziale dagli errori umani. Ma tutto questo è dimenticato. “Non parliamo di Katrina, parliamo di New Orleans”, ripetono tutti mentre lavorano alle grandi celebrazioni del 2018, i trecento anni dalla fondazione. “Se vi guardate intorno, avrete l’impressione che la tempesta non sia mai passata da qui”, spiega Mark C. Romig, a capo della Notml, New Orleans Tourism Market Corporation, l’agenzia di promozione turistica della città. Il 2014 ha registrato il nuovo record di spesa turistica di 6,8 milioni, i visitatori sono arrivati a 9,5 milioni, dopo Katrina erano crollati a 3,7, nel 2006.
Oggi ci sono più ristoranti di allora, Nicholas Cage e molte altre star si sono spese per attirare l’attenzione sulla città, Lady Gaga ed Elton John accorrono al festival del jazz, la città spende il 49 per cento del suo budget di comunicazione sui social network. Non lo dicono esplicitamente, ma gli abitanti lasciano intendere che in fondo l’uragano ha fatto bene a New Orleans. “Dopo Katrina c’è stata una decentralizzazione degli ospedali dovuta all’emergenza, per garantire assistenza nei quartieri lontani dagli ospedali, poi questo modello si è consolidato. Anche la scuola è migliorata, abbiamo dovuto ricostruire gli edifici e in città sono arrivate molte chartred school, scuole pagate dal pubblico ma gestite da privati, anche se abbiamo perso una generazione di studenti, scappati con l’uragano e che hanno finito i loro studi altrove”, spiega Mike Romig, della promozione turistica. Qualche anno fa la scrittrice e attivista canadese Naomi Klein ha sostenuto che New Orleans fosse il laboratorio della “shock doctrine”: grandi imprese e politici con pochi scrupoli sfruttano la finestra di opportunità aperta da un disastro naturale per ridisegnare la città in modi che mai sarebbero stati possibili con i vincoli della democrazia. Qualcosa del genere è successo: dagli uffici del sindaco spiegano che molto è cambiato e molto in fretta. Dopo un paio d’anni di scontri burocratici con la Fema, l’equivalente americano della protezione civile, si è trovato un compromesso: procedure di urgenza e rapidi arbitrati, prendere o lasciare, niente negoziati estenuanti. E la città è rinata, la ricostruzione è stata un ottimo affare soprattutto per gli imprenditori dell’edilizia. Nessuno ha voglia di parlare di corruzione, di scandali, di ruberie, tutti raccontano la stessa storia di una città che è sopravvissuta allo scetticismo di quei membri del Congresso che dicevano “inutile ricostruirla, tanto ci sarà un’altra inondazione”.
La resilienza di “Big Easy”
Attorno al mito della “resilienza” New Orleans ha trovato un’identità alternativa a quella di “The Big Easy”, dove si vive senza pensieri in un Martedì Grasso che dura tutto l’anno a ritmo di jazz. L’uragano non ha spinto soltanto gli affari ma ha anche costruito un nuovo senso di comunità. In Washington Avenue, in una zona dove pochi coraggiosi si avventurano con i mezzi pubblici e che i tassisti frequentano poco volentieri, c’è Propeller, un incubatore per imprese sociali che è nato e cresciuto proprio come reazione a Katrina. La struttura è quella di tanti progetti simili negli States: uno spazio di lavoro condiviso, scrivanie in affitto, dove decine di ragazzi lavorano con il loro Mac e gli auricolari nelle orecchie, la tazza di caffè sempre piena, sentendosi un po’ nella Silicon Valley. Le imprese che Propeller assiste con ricerche di mercato, sostegno nell’accedere alla pubblica amministrazione e ai finanziamenti, in alcuni casi anche con aiuti finanziari diretti, hanno tutti una caratteristica comune, “devono avere il potenziale di affrontare i problemi più urgenti della nostra città, sicurezza alimentare, gestione dell’acqua, istruzione, e avere una struttura di ricavi, anche se non necessariamente la sostenibilità finanziaria”, spiega Sidney Gray, una dei giovani manager di Propeller, tornata in città dopo l’uragano. C’è il progetto di educazione alimentare nelle scuole (a New Orleans non si contano gli adolescenti che si arrendono presto a vestirsi solo con magliette sformate per nascondere l’obesità), pagato dalle scuole o dai genitori, ancora non si sa, ma pure questo è considerato una start up dentro lo stanzone di Propeller.
Anche la Second Harvest Bank è un pezzo di welfare parallelo che si è consolidato dopo l’uragano, dalla gestione dell’emergenza inondazione a quella dell’emergenza quotidiana del cibo. La Second Harvest, poche strade di distanza dalle start up di Propeller, è una banca del cibo che raccoglie donazioni da privati e dal governo federale, che negli Stati Uniti compra i prodotti agricoli protetti per sostenerne il prezzo. “Abbiamo reagito all’emergenza, poi siamo passati ad affrontare un’emergenza permanente. A New Orleans l’economia si regge sui servizi e la paga oraria può arrivare anche a 2,75 dollari, non è abbastanza, ci sono enormi problemi di sicurezza alimentare che non sono percepiti”, spiega un portavoce. Nei magazzini della Second Harvest sono stipate pile di succhi di frutta, cibi in scatola, biscotti, e anche notevoli dosi di quel junk food, il cibo spazzatura ipercalorico, che l’organizzazione non si sente di buttare. Sedicimila volontari si alternano nello smistare i pacchi verso le associazioni partner sul territorio che consegnano il cibo, c’è anche un servizio di assistenza per accedere al programma federale dei Food Stamps, buoni per comprare cibo al supermercato. Il sistema della Second Harvest, infatti, ha una falla: spesso raccogliere e distribuire i prodotti scartati dai supermarket può costare più che fornire ai bisognosi i soldi per pagarli alla cassa. “Sappiamo di non essere perfettamente efficienti, ma siamo una nicchia nell’economia di mercato che permette di evitare lo spreco di tanto cibo e aiutare 200000 mila persone nella zona”, spiegano dalla Second Harvest. Un welfare comunitario indipendente che si fonda sulla propensione tutta americana al volontariato e che permette al governatore Repubblicano della Louisiana, Bobby Jindall, di affermare che la spesa pubblica si può tagliare senza danni perché la società sa organizzarsi da sola meglio dello Stato. A causa delle sue ambizioni presidenziali e di una costituzione statale rigida che preserva alcune voci di bilancio, Jindall si appresta a ridurre dell’80 per cento la spesa per l’istruzione. Questo e altro per dimostrare di essere il Repubblicano più austero in campo fiscale.
Le paludi rimosse
Per sfuggire alla retorica della “città che resiste da 300 anni” e non si piega di fronte alla furia di una natura crudele, bisogna andare in quartiere residenziale dove tutte le case sono state ricostruite come sopraelevate, con un’intercapedine tra pavimento e terreno per far scorrere l’acqua. A cinque isolati dal sindaco Mitch Landrieu, l’uomo della rinascita di New Orleans, abita Bob Marshall, un giornalista premio Pulitzer che, a 65 anni, ha lasciato il principale quotidiano locale, il Times Picajune, per partecipare a un sito no profit di inchieste, The Lens of Nola. “Io non amo chiamare Katrina un disastro naturale – esordisce, davanti a un muffin caldo – la natura fa quello che crede, le conseguenze dipendono da scelte dell’uomo”. The Lens of Nola, insieme alla grande piattaforma di giornalismo investigativo no profit Pro Publica (altro premio Pulitzer), ha pubblicato un’inchiesta che a New Orleans in tanti hanno preferito non leggere: Losing Ground, perdere terreno. In senso letterale: le paludi (wetlands) attorno alla città stanno sparendo e con esse l’unica difesa dagli uragani. Non è un problema solo ambientale, ogni tempesta rischia di paralizzare uno dei principali porti degli Stati Uniti, il 90 per cento della raffinazione di petrolio e di far scomparire completamente la città di New Orleans nei prossimi decenni. L’ecosistema attorno al Missisippi è tra più delicati al mondo: la città e tutte le zone abitate si reggono su uno strato di fango depositato dal fiume con le sue periodiche piene che però, tra i vari effetti, lasciavano depositi anche sugli argini rafforzandoli ogni volta un po’. Nel 1927 c’è una grande piena, 500 morti e 600mila sfollati. Il governo federale decide di reagire, mobilita il genio militare per creare un sistema di argini, dighe e canali. “È stata la sentenza di morte per il territorio”, riassume Bob Marshall.
Scavando i canali si smuovono enormi quantità di terra che vengono accumulate vicino agli argini, il loro peso accelera lo sprofondamento della Louisiana. I canali inoltre sono dritti: il bayou, le sinuose insenature delle paludi, arginava la forza dell’acqua portata dall’uragano, i canali creati dall’uomo la indirizzano come una palla di cannone verso la città. Negli anni Trenta si scopre il petrolio nelle zone costiere della Louisiana: per 30 anni la Texaco e gli altri gruppi americani possono agire senza limiti ambientali, scavano, perforano, bonificano. Poi trovano il petrolio anche al largo, off shore, e allora si moltiplicano i tubi con cui portarlo verso gli impianti di raffinazione che, con i loro fumi, distruggono le piante (e senza piante che si decompongono naturalmente non si ricrea il terreno alla base delle wetlands). Morale: tra il 1930 e il 1990 il 16 per cento delle paludi si è trasformato in acqua, il mare si è avvicinato dal Golfo del Messico, anche grazie al riscaldamento globale, e con la sua acqua salata distrugge tutto. Nel 2007 il Congresso americano ha approvato un piano da 50 miliardi su 50 anni con lo scopo di arrivare al 2060 avendo ricreato un po’ più di wetlands di quelle che saranno scomparse.
Sopravvivenza incerta
A oggi a New Orleans e dintorni non è arrivato neppure un dollaro. Nonostante le dettagliate mappe satellitari che accompagnano l’articolo di Bob Marshall su Pro Publica e The Lens, è sempre difficile farsi un’idea precisa di questi catastrofismi climatici. Di questo si occupa la moglie di Bob, Marie Gould, con il suo Lost Land Tours, un giro in kayak per mostrare cosa ci stiamo perdendo: bisogna pagaiare alcune ore nell’acqua nera della palude, osservati da qualche alligatore curioso, per rendersi conto che la scomparsa delle terre non è uno scenario futuribile. Appena si esce dalle spire del bayou, per centinaia e centinaia di metri si vedono solo alberi senza foglie e morenti che emergono da un’acqua sempre più salata, scheletri in decomposizione di quelle che una volta erano rigogliose wetlans piene di alligatori, gufi, tartarughe e anche uomini. Guardando quel che resta, ed è ancora tanto, Marie Gould dice: “Tra cinquant’anni tutto questo non ci sarà più o sarà rinato, non ci sono vie di mezzo”.
Forse, ma questo non si può dire ad alta voce, ci vuole un evento catastrofico ancora più grande dell’uragano di dieci anni fa per spingere l’opinione pubblica a considerare la tutela dell’ecosistema delle paludi la migliore difesa della città. Forse ci penserà la prossima presidenza, Barack Obama non ce l’ha fatta, anche se ha promesso che di ambiente parlerà anche con Papa Francesco nella sua visita americana. Forse. O forse no. Di certo Katrina è stato dimenticato, come la lezione che avrebbe dovuto lasciare.
Stefano Feltri, il Fatto Quotidiano 8/6/2015