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 2015  giugno 07 Domenica calendario

“MADRE NELLA VITA E NELLA FICTION E ANCHE MAMMA DI UN NUOVO FILM”

[Intervista a Isabella Ferrari] –
L’oliva nuota nella vodka e Isabella Ferrari non smania per ubriacarsi di passato: “Da giovane volevo solo scappare di casa e diventare famosa. Non avevo frequentato l’Università, vissuto nelle grandi città, assorbito l’atmosfera di una famiglia anche solo vagamente intellettuale. Nella campagna piacentina trascorrevamo il tempo nelle stalle, tra i mucchi di fieno, i trattori, gli animali”.
Nel percorso che all’alba degli Anni 80 la instradò verso il cinema ha incontrato molte bestie: “Vestite di tutto punto che, volgarissime, con la scusa di vedere se potevi recitare ‘fammi capire se puoi stare veramente in scena’, provavano a metterti le mani addosso”, qualche persona in gamba, “non pochi stronzi” .
In attesa di vederla nell’ultima fatica di Mimmo Calopresti, dopo più di 40 film, molto teatro, tanti premi, qualche fortunato ruolo televisivo e un libro che non scriverà mai: “Me lo chiedono, ma alla mia età suona un po’ funereo” l’attrice si è trasformata in produttrice: “Per una volta, un’opera nasce anche grazie a me. Più che produttrice, de La vita oscena di Renato De Maria, sono stata fiancheggiatrice. Mi sono spesa per trovare piccolissimi finanziamenti, per far esistere un film anomalo che esclusi Gianluca De Marchi, Riccardo Scamarcio, Fabio Mazzoni e pochissimi altri, quasi nessuno voleva sostenere economicamente”.
Tratta dal libro di Aldo Nove, fotografata con notevole sperimentazione da Daniele Ciprì e già passata a Venezia in “Orizzonti”, dall’11 giugno, questa storia di orfani lasciati soli che prima di riemergere sapranno scendere in apnea scandagliando sesso, azzardo, droga e piromania sarà nei cinema. Isabella è una madre malata.
Un paziente che conosce il suo destino: “Ma non rinuncia a guardare al presente con gioia fino all’ultimo istante. Per costruire il personaggio mi sono consultata anche con Nove. Uno scrittore che sa giocare con le parole e ha un modo poetico di stare al mondo”.
De La vita oscena e dei suoi pauperismi in equilibrio precario sui conti in rosso, Ferrari è orgogliosa: “Interpretarlo è stato un divertimento e un regalo in sé per sé”. Per prodotti così indipendenti, dice: “Lo spazio non c’è. Aveva ragione Moretti a Cannes”.
In cosa aveva ragione?
A fotografare la situazione. Nanni faceva un discorso semplice e innegabile: “In concorso abbiamo tre film, ma la nostra industria fatica ad esistere”. È verissimo. Moretti, Sorrentino e Garrone erano in Francia per loro meriti esclusivi. Per i premi vinti in precedenza. Per il valore delle opere.
Con Renato De Maria, suo marito, è alla terza collaborazione. “Hotel paura”, “Amatemi” e adesso “La vita oscena”. Tre film in 19 anni.
Renato ha sempre saputo regalarmi immagini bellissime, ma non siamo una holding e non abbiamo scadenze obbligate. Lavoriamo insieme quando ci appassioniamo a un progetto comune.
Come è nata la passione per “La Vita oscena”?
Renato finisce il libro di Aldo Nove e si mostra entusiasta: “Leggilo subito” mi dice. Gli do retta, lo divoro e poi decido di essere sincera: “Secondo me questo film non lo girerai mai, ma se ce la dovessi fare, vorrei essere la madre”.
E madre è stata. Non è la prima volta.
Se mi guardo indietro capisco che ho interpretato sempre ruoli legati all’amore. All’amore innocente, violato, filiale, coniugale. Sono stata un soggetto del desiderio però, non l’oggetto. Mai l’oggetto. E ho sempre preferito chiedere perdono che chiedere permesso.
Nel 1981 Carlo Vanzina la vide in “Sotto le Stelle” di Gianni Boncompagni e decise di sottoporla a un provino per “Sapore di Mare”. Il film incassò 10 miliardi di lire. L’Italia si accorse di lei.
Di Sapore di mare ho un bellissimo ricordo. Al provino di arrivai senza nessuna preparazione, nessuna scuola alle spalle, nessun background. Ottenni il ruolo della giovane fidanzata in competizione con una donna adulta e bellissima.
Virna Lisi le parla in un giardino della Versilia: “Sai una cosa Selvaggia? Il problema è che diventare vecchi fa schifo”.
Selvaggia. Dopo Sapore di mare mi chiamavano tutti così. Per strada, al bar, al semaforo. Avevo diciott’anni. I paparazzi mi seguivano fino in chiesa. Ero partita dalla provincia per farcela a tutti i costi. Ce l’avevo fatta prima del previsto senza sforzi apparenti e tutto quel successo improvviso mi presentò il conto e mi destabilizzò.
In che modo?
Per inesperienza e necessità economiche accettai anche qualche brutto film. Dopo Sapore di mare i produttori mi inseguirono per farmi interpretare altre commedie. Non feci granché per oppormi all’inerzia. Oggi rifiuterei le offerte, ma allora era allora e nel mantenermi mi sembrava ci fossero più risposte che domande. A casa eravamo stati allevati al pragmatismo.
In cosa consisteva il pragmatismo?
C’erano i valori antichi e i valori antichi preferivano il realismo alla poesia. A vent’anni, con guadagni dei primi film, ero riuscita a comprare la mia prima casa in una città in cui ero arrivata con i risparmi della Cresima e della Comunione. Mi bastava per essere soddisfatta. Non chiedevo altro.
Sentimentalmente che ricordo ha dei suoi Anni 80?
Non ero mai sola. Avevo sempre un fidanzato. Subivo la figura maschile e in qualche modo le ero sottomessa. Ho avuto quasi sempre ragazzi opprimenti e siccome l’amore influisce moltissimo su tutto il resto e autorità e gelosia non fanno altro che ucciderlo giorno dopo giorno, non posso dire che quegli anni siano stati completamente felici. Erano possibili gioie e si sono rivelate gioie tristi. Peccato. L’amore mi ha molto coinvolta, ma non rinnego nulla. Oggi certi drammi sembrano lontanissimi. Sono meno problematica. Mi basta una doccia. Una canzone di Battisti da cantare. Passa tutto in un attimo. Ieri era peggio.
Non esistevano i telefonini. Massima ragione del dissidio di coppia. Il controllo ossessivo a volte riserva sgradite sorprese.
Non c’erano i telefonini, ma c’era il tono di voce lasciato in segreteria. Il timbro di rimprovero. I fax d’amore disperati. Le assenze. I silenzi prolungati. Non si può dire se si stesse meglio. Se le relazioni fossero davvero meno insidiate di oggi.
Quali altre cartoline ha conservato dei primi tempi romani?
La A112 che comprai usata. Era di un azzurro che avevano solo le A112. E le paure. Il senso di inadeguatezza. La sensazione di spaesamento. I dubbi. Mi son costati Carmelo Bene, i dubbi.
Racconti.
Avevo 19 anni. Mi dissero che il maestro voleva incontrarmi senza la mia agente in vista del suo Adelchi. La condizione era che andassi da sola a casa sua. Ci ragionai, partii e una volta arrivata sotto l’appartamento mi prese il panico, non suonai alla porta e fuggii. Certi nomi, certi registi incutevano timore. Per questo ancora oggi sono grata a Vanzina. Fu molto dolce. Molto comprensivo. Si comportò come un padre. Ero giovane, emozionata, non sapevo niente.
Non tutti si dimostrarono comprensivi?
Dopo il successo di Sapore di mare Dino Risi mi volle in Dagobert e mi trattò malissimo. Io ce la mettevo tutta e non capivo. Giravamo quasi sempre all’alba. Alla Magliana, alle sei di mattina, bardati con dei costumi del 600. Risi fu cattivo. Spietato. Ero intimidita, stretta in un cast con tra Coluche, Serrault e Tognazzi e lui mi aveva puntata. Urlava dal megafono: “Sei una cagna”. Soffrii molto. Credevo avesse ragione.
Vi siete mai chiariti?
Sul tema non gli ho mai più detto una parola. Sul set prendo quello che mi dai, non lotto per cambiare qualcosa, il film è del regista anche se a volte chiedersi: “Perché mi hai scelta se non ti piaccio?” è naturale. Negli ultimi anni con Risi eravamo diventati vicini di casa. Lo incrociavo tutte le mattine mentre portavo i figli a scuola. Lui elegante, flemmatico, con le mani dietro la schiena. Io stravolta, dietro a zaini, orari e ritardi. Ci fermavamo per un saluto rapido. Grandi abbracci: “Sei la più bella, sei la più brava”. Forse aveva cambiato idea.
Della più brava, a Venezia, le diedero lo scettro nel ‘95. Coppa Volpi come migliore attrice non protagonista per “Romanzo di un giovane povero” di Scola.
Scola mi era venuto a trovare a teatro. È un uomo molto affascinante. Con un fascino che va ben oltre il talento di regista. “Sei nata in un’epoca sbagliata – mi diceva – i personaggi viscontiani non ci sono più e neanche il De Sica de Il giardino dei Finzi Contini. Togliti la maschera e mettiti in gioco, altrimenti servi solo per una copertina di Vogue”. Mi ha insegnato cose che non ho dimenticato. Mi sarei fatta in quattro per non deluderlo, ma alla vigilia della conferenza stampa veneziana ero a disagio. Mi tranquillizzò con una calma saggia e intelligente: “Di dove sei tu? Sei di Piacenza? E tua madre si chiamava Vinetti?”. Mi riportava alla realtà. Mi diceva di volare basso. Guardando alle cose concrete. Alla relatività della circostanza. Con cinismo lucido: “Isabella, a questi non gliene frega niente del film che hai fatto con me, ti chiederanno dell’altro, di quello di Giacomo Battiato”. In Cronaca di un amore violato c’era la sequenza di uno stupro. Una cosa cruda. Forte. Con immaginabile coda di polemiche. Preveggente, Ettore aveva capito. Sapeva che i giornalisti mi avrebbero interrogato solo su quel tema. E così andò.
Sordi se lo ricorda?
All’Hotel Excelsior, prima della passerella. Molto vanitoso e attento ai suoi capelli, al sudore, alla popolarità. Un monumento. Gli attori amano guardarsi. Mi ricordo nitidamente di Isabelle Huppert, proprio in quel Festival. Si preparava a salire sul palco. Si specchiava. Controllava se era a posto. Io prima di girare non mi guardo mai. Non cerco specchi. Non voglio sapere chi sono.
Si è in base alla proprie scelte?
È inevitabile, ma da un certo punto in poi ho scelto sempre io. Preferendo la famiglia al lavoro, l’Italia alla Francia, il ruolo di capotribù del mio matriarcato al ruolo scritto sul copione. Pigra non sono mai stata. Mia madre sostiene che se mi fossi dedicata solo al cinema, oggi avrei un altro curriculum. Ma io sono orgogliosa di quello che ho fatto e altrove non sarei voluta andare. Se una cosa mi incuriosisce la affronto con entusiasmo. A volte i copioni sono modesti, il linguaggio non ti interessa e proprio non ce la fai. Altre va meglio. Sono passata da La grande bellezza a Una grande famiglia senza traumi. L’idea è stata di Ivan Cotroneo. Gli dico ancora grazie.
In assoluto le piace recitare per la Tv?
La tv mi piace moltissimo. Vado al mercato e come ai tempi di Distretto di Polizia, incontro la curiosità che si mischia alla scelta delle zucchine. “Signora, ma Claudia guarisce?”. La tv ti restituisce una dimensione unica. Fosse per me, farei una serie l’anno.
Le chiedo un nome. Magari il nome di chi nel cinema l’ha aiutata per prima.
Non parlo mai di chi mi ha davvero scoperta, Claudio Bonivento. Un produttore che fece esordire Marco Risi, Placido e Marco Tullio Giordana e che proprio a Giordana propose per un ruolo difficile e drammatico, una ragazzina che veniva da un cinema più leggero.
Il film era “Appuntamento a Liverpool”. Presentato a Venezia nel settembre del 1988. Lei interpretava una ragazza in cerca di vendetta per la morte di suo padre nella strage dello stadio Heysel.
Bonivento decise di stravolgermi l’immagine e far dimenticare chi ero stata cinematograficamente fino a quel momento. Giordana nell’operazione non credeva neanche un po’. Tra loro ci fu qualche frizione, ma alla fine ottenni il ruolo. A quel punto misi tutta me stessa nell’impresa e mi affidai completamente a Marco Tullio. Mi fece tagliare capelli. Mi rese irriconoscibile.
Morando Morandini esultò: “Ignoravo l’esistenza di Isabella Ferrari, l’ho vista sullo schermo con crescente meraviglia, è lei che dà l’acqua della vita al film. Le auguro che nel mondo del cinema romano qualcuno se ne accorga”.
Al termine della proiezione per la stampa, Giordana mi aggiornò: “Sui titoli di testa, al tuo nome, sono piovuti i fischi. Alla fine si sono trasformati in applausi”.
Le è successo anche a Roma. Nel 2012 l’hanno premiata come miglior attrice per “E la chiamano estate” di Paolo Franchi e il pubblico in sala si è diviso. Lei diede una chiave psicanalitica: “Succede perché una donna mette in scena l’osceno”.
Ne sono ancora convinta. Anche se osceno ha molti significati e troppi punti di vista. Ne La vita oscena, l’osceno è il dolore. La capacità della vita di far male, togliere e ferire. Nel film di Franchi è altro. Lei voleva sapere dei fischi, giusto? Ormai a certe cose sono completamente immune. Mi sembrano passato remoto. Relativizzare e riservare a determinati eventi una memoria breve, è l’unico modo che conosco per essere equilibrata e sentirmi ancora una ragazza.
Non si ricorda il caos?
Me lo ricordo, solo che non gli do peso. In sala successe il finimondo. Qualche applauso, tanti fischi. E la chiamano estate era il film italiano perfetto da aggredire e per farsi aggredire, aveva anche degli elementi a suo carico. Era perfetto per sbattermi in prima pagina e io, più ingenua che ottimista, alla celebrazione avevo trascinato anche mia madre e i miei figli. Giovanni era piccolo ed era un po’ turbato. A casa, per consolarmi, tirò fuori i premi da una bacheca per metterli in fila: “Però, mamma: ne ha hai vinti tanti!”. L’unico reale dolore legato a quella sera è stata l’incertezza sul da farsi. Il momento di vuoto che ho provato mentre decidevo tra istinto e ragione.
Cosa le suggeriva l’istinto?
Di appoggiare il premio sul palco e andarmene. Ci sarebbe voluto molto coraggio. Significava eleggere un nemico. Schierarsi contro qualcuno. E io quel coraggio lì non l’ho mai avuto.
In un’epoca non troppo lontana l’ha fatto politicamente.
Qualche anno fa orientarsi era più facile. C’era l’uomo cattivo e dell’uomo cattivo si discuteva a colazione e a cena. Ora che l’uomo cattivo non c’è più a me non va di parlare di nessuno. Se ci fossero state le elezioni, mi dispiace dirlo, avrei fatto parte della grandissima parte del Paese che ha scelto di astenersi. Dalla politica avverto un distacco totale. Mi impegno in altro modo. Sono ambasciatrice di Save The Children. Ma sa qual è la verità?
Qual è?
Che passa tutto e che per analizzare certe cose seriamente, il palco, l’amore, i film e la politica, un’intervista non basta. Bisognerebbe farlo, se proprio si provasse desiderio, sul lettino dell’analista.
Ma non siamo in un film di Nanni Moretti.
Purtroppo no. Mia madre mi ha fatto ridere e piangere allo stesso tempo. È un capolavoro. Come è un capolavoro Youth. Persino più de La Grande Bellezza.
Ne “La Grande Bellezza” al Jep Gambardella di Toni Servillo che le chiede lumi sul suo mestiere lei risponde: “Sono ricca”.
Ho fatto le mie scelte, ho rifiutato e continuo a rifiutare quel che non mi convince e ad accettare quel che mi diverte senza pregiudizi, ma con il mio lavoro non mi sono arricchita. Quel miracolo non si è verificato. E tutto sommato non me ne importa niente.
Trent’anni di carriera cosa le hanno insegnato?
A essere attenta. A non credere a tutto. Nelle trappole e nelle assurdità create ad arte son cascata talmente tante volte che adesso so come evitarle. Proprio per Sorrentino ho recitato in una pubblicità che reclamizzava lingerie. Sembrava un’impresa indolore e invece me ne hanno dette di tutti i colori solo perché a 46 anni indossavo mutande e reggiseno. A 46 anni mutande e reggiseno non si indossano più?
I giornali sostennero che Photoshop le avesse alterato i lineamenti.
Perché, senza che c’entrassi niente né fossi stata informata da qualcuno, in post produzione era stato aggiunto un terribile photoshop sul mio ombelico. Il photoshop si usa anche sui bambini. Basta usarlo bene. Non era quello il caso. E invece discussioni in tema, polemiche, miserie. Ancora non ho capito dove avrei sbagliato.
E se lo chiede?
Ho smesso. Anche da ragazzi, in campagna, c’erano tanti significati nascosti. Non eravamo tenuti a sapere tutto o a capire ogni cosa. A volte adotto lo stesso sistema. Però mi sento libera e non penso di aver rinunciato mai a niente. Sono decisamente anarchica e non ho padroni. Non li ho mai avuti, neanche quando sembrava che ci fossero.
Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 7/6/2015