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 2015  giugno 07 Domenica calendario

FRANCESCO PANNOFINO

ROMA
Il ruolo più recente, quello di Salvo, operaio siciliano trapiantato a Torino, rozzo ma giusto, lo interpreta in Patria, film di Felice Farina ispirato al libro di Enrico Deaglio. È invece il padre di uno dei componenti della band musicale, Le frise ignoranti, nella commedia omonima di Antonello De Leo e Pietro Loprieno. Lui è un talento eclettico, doppiatore di attori mito del calibro di George Clooney e Denzel Washington, indimenticabile voce metallica e strusciante del Tom Hanks di Forrest Gump, animatore di cartoni animati e telefilm americani. Attore ironico e versatile di cinema, teatro, radio e audiolibri, mattatore di spot pubblicitari e protagonista di fiction amatissime, dal disincantato René Ferretti nelle serie Boris, film compreso, a Nero Wolfe, l’investigatore maniacale e misogino inventato da Rex Stout. Infine, perfino cantautore con un disco che uscirà il prossimo autunno. «Sedici canzoni scritte da me quasi per caso… Titolo provvisorio: A-AA. Vendesi emozioni...».
Francesco Pannofino, cinquantasei anni, pugliese d’origine, nato in Liguria e romano d’adozione, è come te l’aspetti, spiritoso e sarcastico, curioso e disponibile, soddisfatto del suo lavoro e ottimista quanto basta. «Il disco? Speriamo bene, comunque non mi monto la testa. Il doppiaggio è la mia stabilità, anche se il teatro e il cinema sono più solenni e ci si mette la faccia». E, se gli chiedi che cosa vorrebbe ancora fare, azzarda che gli piacerebbe provare con la regia, «ma non ho ancora la storia giusta e ho bisogno della squadra». E un romanzo? «Me lo avevano chiesto ben due editori; ne avevo scelto uno, ma alla fine ho rinunciato».
Arriva all’appuntamento puntuale, reduce da una riunione dedicata ai trailer del nuovo film di George Clooney, Tomorrowland.
«Lui non l’ho mai incontrato, una volta però mi ha telefonato. Mi fa: “Thank you very much, bravo, bella voce”. E io: “Che fai, impari l’italiano?”. Lui: “Poco, pochino”. “Non farlo troppo bene, sennò io che faccio?”». Gigioneggia, beve un caffè, segue sigaretta. Inizia con Patria: «Sono appassionato di storia italiana, quella recente, e poi il libro di Deaglio si apre con la strage di via Fani. Io ero lì quella mattina del 16 marzo 1978. Abitavo a pochi metri, ed ero appena uscito di casa per andare a prendere il tram; andavo all’università, frequentavo matematica, avevo lezione di algebra. Mi fermai all’edicola e comprai Il Messaggero; la Juventus aveva passato il turno di Coppa dei Campioni e, quando sentii gli spari, stavo guardando la foto di Zoff. Mi girai, non vidi nulla, scappai. Solo dopo un po’ sono tornato indietro e ho visto i morti, il sangue... Mi ricordo le facce, i bossoli per terra e l’odore del piombo. Qualche tempo dopo ci scrissi una canzone, Sequestro di Stato ». Accompagna i titoli di coda di Patria.
Le canzoni ha cominciato a scriverle tra il 2006 e il 2007. «Iniziai la prima serie di Boris, ogni giorno arrivavo sul set alle otto del mattino, ma poteva capitare che girassi solo alle tre del pomeriggio. Allora ho avuto l’idea di portarmi la chitarra e quasi tutte le mie canzoni le ho scritte lì. Ogni tanto le facevo sentire agli amici, durante le pause. Una in particolare, Ciak, venne apprezzata nientemeno che da Francesco De Gregori. Gli scrissi una mail per ringraziarlo, mi rispose: “Sì era proprio bella”. Mi sono sentito incoraggiato. Da allora, le ho tenute tutte in un cassetto, fino all’estate scorsa. Alfredo Saitto, produttore veterano, ascoltò Ciak durante le prove di un evento che si sarebbe dovuto tenere a Roma e che io avrei dovuto presentare. Mi chiese di sentire anche gli altri miei pezzi. Ed è nato il disco».
Padre carabiniere, pugliese di Cisternino, e mamma sarta, di Locorotondo. «Da grande avrei voluto fare il calciatore, oppure il giornalista sportivo. O l’attore. A scuola ci esibivamo spesso, eravamo in due o tre, “gli esibizionisti”, e facevamo le imitazioni; io ero sempre quello che faceva ridere di più. All’università non ci ho mai creduto, l’avrei voluta lasciare da subito, ma mio padre mi stava addosso: “O lavori o studi”». L’occasione arriva a vent’anni: sostituire la segretaria tuttofare della Società attori italiani, andata in maternità. «Ero al bar con altri ragazzi. Arrivò un signore e chiese se ci fosse qualcuno disponibile. “Io, io!”, mi buttai. Ci rimasi un anno e mezzo; fu un bel periodo, in quella sede passavano un po‘ tutti, Volonté, Montesano… Io mi occupavo del ciclostile, nel frattempo però frequentavo le moviole dove si preparavano le scene per il doppiaggio. E imparai tante cose, per esempio come si fa un piano di lavoro. Mi proposero di diventare assistente al doppiaggio. Il direttore era Aldo Massasso, vide subito che ero un ragazzetto sveglio. Il momento era favorevole, stavano nascendo le tv private e il lavoro aumentava a dismisura».
Diventa la voce di decine di personaggi, fiction, serie, cartoni animati. «Un giorno mi chiama Tonino Pavan, leader del Sindacato attori, e mi suggerisce di presentarmi a Trieste al Teatro Stabile, dove si stava mettendo in scena L’affare Danton. “Ci sono trentacinque personaggi e una decina sono giovani. Vai a farti vedere”. Stavo facendo il servizio militare, andai al provino in divisa, ricordo ancora le facce. Però mi presero».
Per Pannofino doppiatore fu Forrest Gump la pietra miliare. «Avevo già parecchia esperienza, avevo partecipato perfino a un film straordinario come Gli Intoccabili , ma la mia voce non era quella di Hanks… Il direttore era Mario De Angelis e la produzione americana gli aveva affiancato una supervisor, in quel periodo era la normalità e tutto dipendeva da loro. Dovevo inventarmi qualcosa, Tom Hanks parlava con l’accento dell’Alabama, un inglese strascinato, brasilianizzato. Feci il provino, uno due, tre volte, alla fine il verdetto: “Non vai bene ma ti prendiamo, sei quello che si è avvicinato di più”».
Anche in teatro è uno spettacolo a portargli fortuna. Esercizi di stile di Queneau, per vent’anni (anche se non continuativi) in palcoscenico, dal 1989 al 2009. «In Esercizi di stile, la storia ripetuta dà modo all’attore d’interpretare venti personaggi diversi in altrettanti minuti. Fu dopo avermi visto lì che mi proposero Boris, tante serie e un film. Ho molto amato il mio personaggio, René Ferretti, e spero di tornare ancora a interpretarlo». Da Boris a Nero Wolfe, una trasformazione totale: «Sono ingrassato venti chili per quella parte, ma adesso che sono tornato ai miei novanta, sto pensando di ricominciare a giocare a calciotto, la mia passione». Si è divertito con il doppio ruolo in Ogni maledetto Natale. «Era la stessa banda di Boris , una garanzia per me. Fino all’ultimo momento non sapevamo che avremmo girato in entrambi gli episodi, soluzione che si è invece rivelata una trovata. Ma io, con gli autori di Boris, Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, vado a occhi chiusi, adoro il loro umorismo intelligente e paradossale». Dice di essere una persona positiva, forse un po’ umorale, ma equilibrata, concreta. «Con la mia ex moglie, Emanuela (Rossi, doppiatrice e attrice anche lei, ndr), ci separammo quando nostro figlio, Andrea, che ora ha diciassette anni, era ancora molto piccolo. Siamo rimasti a lungo divisi, poi ci siamo rimessi insieme, ma non ha funzionato e ora siamo di nuovo single. Abbiamo ottimi rapporti, ci vogliamo bene. Ecco, Emanuela è anche nel cast di I suoceri albanesi di Gianni Clementi, per la regia di Claudio Beccaccini, l’ultimo spettacolo teatrale che porteremo in giro per l’Italia l’anno prossimo».
Siamo ai saluti e, all’elenco del prossimo futuro, si aggiunge ancora un corto in uscita Djinn tonic, ovvero Il genio della lampada di Aladino . È di un gruppo di cineasti di Modena, lo stesso che fece Tellurica dopo il terremoto. «Io sono il genio…», scherza.
Silvana Mazzocchi, la Repubblica 7/6/2015