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 2015  giugno 06 Sabato calendario

DORI GHEZZI: «ASPETTO ANCORA DE ANDRÉ»

«Quando in anticipo sul tuo stupore/ verranno a chiederti del nostro amore/ a quella gente consumata a farsi dar retta/ un amore così lungo tu non darglielo in fretta». Non è facile dimenticare i versi di Fabrizio De André mentre si va a trovare Dori Ghezzi nell’ufficio vicino a corso Magenta dov’è la Fondazione. «No, non sono per me», sorride lei che è ancora una bella ragazza bionda, dal fisico sottile e lo sguardo profondo.
Cantava Casatciok quando si incontrarono la prima volta a Genova, quasi cinquant’anni fa. «Vincemmo entrambi il premio Caravella nel 1969. Io con il ballo della steppa, lui con Tutti morimmo a stento. Pensi che abisso».
Evidentemente non pesò.
«Fabrizio era già un mito, io una cantante arrivata al successo con una canzone popolare. Non so dire cosa vide in me. Ebbe fiducia nel suo istinto, nella chiarezza di quel nostro primo sguardo. Ci scrutammo a lungo, nel corso della serata. Deve essere reciproco, pensai. Però tutto finì lì».
L’attrazione fisica fu immediata. Anni dopo avrebbe scritto che il suo primo pensiero fu fare all’amore.
«Sì, un piacere fisico che andava oltre quello sessuale. Ci eravamo riconosciuti, come se ci appartenessimo da sempre. Ma la storia sarebbe iniziata qualche anno dopo, nel 1974, in uno studio di registrazione. Mi chiese il numero di telefono e l’indomani mi chiamò».
Sorpresa?
«Un po’, ma non troppo. Non cominciava un discorso ma continuava. Fabrizio s’impose con naturalezza, senza smancerie né sentimentalismi. E non mi faceva pesare la distanza. Era l’artista colto, il cantore di Brassens e Villon, eppure non l’ho mai visto in cattedra. Mi colpì per l’umiltà, sempre attento a valorizzare quanto di buono era negli altri. Anche con me riuscì a tirare fuori energie intellettuali che non sapevo di avere. Ma tra noi più delle parole facevano gli sguardi».
«I nostri sguardi s’incontrano volentieri, senza mai cogliere noia né risentimento». Così raccontava il vostro amore.
«Sì, fin dal principio. Andammo a vivere nella casa di Milano dove stavo con i miei. Mio padre operaio, mia madre casalinga, mia sorella con mio cognato e i tre figli. Lui sembrava contento, come se avesse trovato il mondo che cercava, la vita autentica dei semplici dopo le avventure negli angiporti di Genova. Era in fuga dai formalismi della società altoborghese. Anche se nei modi Fabrizio non smise mai d’essere un signore».
Era un periodo particolare della sua vita?
«In famiglia le cose non andavano più tanto bene, il rapporto con la moglie Puny già esaurito. Sentiva il bisogno di lasciare Genova per vivere in un posto sperduto in campagna. Fin da subito mi trovai davanti a una scelta. E scelsi di seguirlo in Sardegna».
Il primo periodo non fu facile.
«Scappa fin che sei in tempo, mi dicevano i suoi amici. Rischi di farti male, non si separerà mai dalla moglie. Si poteva avere l’impressione che mi trattasse male, però io capivo che non era così. Era in lotta con se stesso, o con una parte di sé. Forse cominciava ad avvertire il potere che inconsapevolmente esercitavo, il potere dei sentimenti. Ho resistito. Spegnevo la sua lotta, disarmandolo. Pian piano ha scoperto la mia forza».
Era geloso?
«Sì, ma senza dirlo. Magari nel rapporto tra noi poteva chiudersi nella sua bolla e non ascoltarmi, ma se parlavo con altre persone captava ogni sfumatura, anche a distanza. In fondo era il suo modo per controllarmi. Anche se tra noi era grande il rispetto della reciproca libertà».
Non voleva essere scrutato nelle pieghe dell’anima. Lo disse apertamente: la storia con Dori contempla trasporto, fiducia e stima, ma non amicizia.
«Sì, diceva di aver lasciato una intercapedine, per non perdere quel piccolo mondo segreto che nutre la passione. Io in realtà non l’ho mai vissuta così. Credo che tra noi sia stata forte anche l’amicizia, che certo da sola non basta».
Come vi chiamavate tra voi?
«Bi e Bo. Lui era Bi, da Bicio, il nomignolo con cui veniva chiamato da piccolino. E io ero Bo. Un giorno gli chiesi: ma Bo perché? Bottana!, rise lui».
Non era così malinconico come traspare dalle sue canzoni.
«Poteva essere molto divertente».
Come reagì alla notizia che aspettavate un figlio?
«Come un uomo responsabile. Temeva di fare male alla prima moglie, al figlio Cristiano. Avvertii in lui dolore e imbarazzo. Me ne andai in Canada per permettergli di elaborare questo passaggio. Però non ho mai dubitato dell’amore di Fabrizio, del suo desiderio di avere una figlia con me».
Lui le è sempre stato riconoscente per averlo liberato dall’alcol.
«Io lo sostenni, sì, ma quello fu un impegno assunto davanti al padre. Giuseppe glielo chiese in punto di morte e mi resi conto che Fabrizio era pronto per quel passo. Era il segno d’una sua maturazione, d’un rapporto diverso con la vita».
Com’erano i suoi rapporti con la famiglia?
«Molto forti. Quando lo conobbi, aveva già risolto i suoi conflitti con il padre. E quando improvvisamente morì il fratello per un aneurisma, restò impietrito per diverse ore. Una statua. Mi spaventai».
E l’ingresso di Dori nell’alta società genovese?
«Il padre venne a Milano per conoscermi. Ci invitò a pranzo, molto cordiale. Mi versò da bere una prima volta. Poi una seconda e una terza. E io chiacchieravo, in totale libertà. A un certo punto disse a Fabrizio: vedi, lei mi piace, non scriverebbe mai una lettera anonima. Aveva capito che ero trasparente, non dovevo fare bella figura. Non indossavo maschere».
Alle maschere foste costretti in Sardegna, durante i centodiciassette giorni del sequestro.
«Fu terribile ma rafforzò il nostro legame. Ci proteggevamo a vicenda, in quell’equilibrio che solo l’amore conosce: quando l’uno si abbatte, l’altro si fa forte. All’inizio fu bruttissimo perché i cappucci ci impedivano di guardarci, e per noi lo sguardo era conforto. Così chiedemmo ai carcerieri di trovare una soluzione alternativa. Ritrovare gli occhi dell’altro fu come ritrovare la libertà».
Perché in Hotel Supramonte De André la definisce «una donna in fiamme»?
«Perché la fiammella della vitalità non fu mai domata. Davanti ai banditi non feci mai la vittima. E quando al mio primo cedimento – un pianto irrefrenabile – loro mi sbeffeggiarono, sparai parole di fuoco: ma come, sono figlia di operai, mi usate come strumento di ricatto e avete il coraggio di sfottere? Una reazione forte che colpì anche Fabrizio, che pure mi conosceva bene. E ci guadagnò il rispetto dei carcerieri».
Quale canzone racconta meglio il vostro amore? De André ha sempre detto che una in particolare gli è stata ispirata da lei, ma non ha voluto dire quale.
«Penso – dovrei dire spero! – sia Jasmina, la compagna che ciascun marinaio spera d’incontrare in ogni porto dopo le spericolate avventure in mare. Sono tante storie in una storia, e in fondo anche la nostra è stata così. E poi quella esplosione di erotismo che è giusto non si spenga mai».
Perché tante storie in una storia?
«Non abbiamo smesso di scoprirci. E non ci siamo mai annoiati. Lui aveva curiosità per me. La curiosità, diceva, è una prova profondissima dell’amore».
Ha qualche rimpianto?
«Negli ultimi mesi della malattia non mi sono mai mostrata fragile. Non gli ho mai pianto addosso tutto il mio amore, stringendolo tra le braccia. Ho mascherato la mia disperazione, pensando che per lui fosse meglio così. Ora mi manca quel momento condiviso di verità e dolore».
Avrà capito e le sarà stato grato.
«Chissà. Penso spesso a quella vecchia canzone che stava incidendo quando cominciò la nostra storia. Era “Valzer per un amore”. Quando carica d’anni e di castità, tra i ricordi e le illusioni del bel tempo che non ritornerà, troverai le mie canzoni … Eccomi qua, a ricordare e in fondo ad aspettarlo: sono sicura che prima o poi ci rincontreremo. Forse inconsciamente quel valzer era già dedicato a me».
Simonetta Fiori, la Repubblica 6/6/2015