Vittorio Zucconi, la Repubblica 6/6/2015, 6 giugno 2015
COPPE E VOTI, CALA IL SIPARIO SU SILVIOLAND
Accesa con il Milan nel 1986, la stella di Silvio Berlusconi comincia a spegnersi proprio dal Milan, trent’anni dopo. Il suo mondo finisce, secondo la profezia di T.S. Eliot, non con un’esplosione, ma con un sospiro di languore e una carrettata di misteriosi milioni venuti dall’Oriente e portati da strani Re Magi, nel lungo addio a una squadra di calcio che egli seppe trasformare nella perfetta allegoria del proprio successo, oltre che in formidabile strumento di politico consenso. E che dunque va letta oggi alla rovescia: il segnale dell’ormai inarrestabile tramonto.
Neppure il gioco delle tre carte che Berlusconi tenta fingendo di vendere senza cedere il controllo riesce a nascondere il patetico addio al sogno che alcuni di noi, che lo conobbero da ragazzi sui campi di calcio della periferia milanese come sponsor di squadrette di allievi, lo sentirono mormorare negli anni ’60, quando vedendo passare un pullman con il simbolo della A.C. Milan disse: “Un giorno questa squadra sarà mia”. Facendo ridere tutti alla sua megalomania. Anche lui, anzi, proprio lui che l’ha tanto applicata conosce la implacabile legge dell’oro: chi ha l’oro fa la legge. E l’oro, oggi, è tutto nei forzieri di quel lontano Oriente che nel 1986, quando Berlusconi era allo zenith del proprio successo da imprenditore, ancora si dibatteva nella miseria, nella ribellione e nella confusione, accasato nella nostra definizione spregiativa di Terzo Mondo.
Il primo scudetto nell’88 e, l’anno dopo, quella prima coppa dei campioni conquistata (4-0) perché non andasse “nelle mani dei comunisti”, cioè i rumeni dello Steaua di Bucarest. Trent’anni dopo, è il tycoon stanco, e con qualche rattoppo e buco sulla maglia trionfante, a essere con il cappello in mano a chiedere che siano i nuovi ricchi a salvarlo dai debiti e forse dalla noia, come già il rivale con la maglia neroazzurra dovette fare, Milan e Inter accomunati nel derby a chi riesce a portare via più soldi dagli avventurieri dell’Est ansiosi di comperarsi, come i mercanti arricchiti facevano con i nobili squattrinati, i titoli e le terre di cui vogliono fregiarsi. E sono stati proprio i mercanti di ieri, che a colpi di dobloni avevano restaurato le glorie lacere di nobili club decaduti dai grandi nomi e dalla casse vuote, come il Milan e l’Inter, a doversi arrendere al loro stesso gioco, marcando un‘ennesima tacca nel tramonto del fallimentare capitalismo milanese, che si credeva destinato a conquistare, dopo l’Italia, il mondo e oggi scopre di essere nei panni del fallito.
Berlusconi e Moratti, che tanto avevano vinto grazie all’enorme sperpero di danaro, oggi perdono insieme il derby della buona amministrazione e se non sono certamente i soli a dover cedere i gioielli della famiglia europea del calcio, sparecchiati da arabi, cinesi, indonesiani, nessuno aveva investito tanto di sé, del proprio no- me, della propria passione nei propri castelli ormai diroccati. Il Milan, come l’Inter, sono state molto più che grandi squadre di calcio. Sono state il simbolo di quella generazione di affaristi, imprenditori e miliardari lombardi che avevano promesso la bonifica di un’Italia devastata dalla burocrazia politica romana o meridionale. E che ora devono ripercorrere in disordine e in ritirata le valli che avevano disceso con tanta boria da “ganassa”.
Forse il Milan, affidato a un allenatore serbo che aveva giurato di non guidarlo mai, e rinsaguato dalle trasfusioni di miliardari che 30 anni or sono neppure sapevano che cosa fosse la Serie A, tornerà a vincere campionati e partite in Italia e nel mondo, perché gli affaristi che ne prenderanno presto il controllo non conoscono sentimentalismi da San Siro, ma solo la musica dei bilanci. Per loro questi club dei nobili decaduti sono semplici investimenti, fatti come si possono investire capitali in acciaierie o filande. Con la stessa facilità con la quale si agganciano, si sganciano e al massimo, secondo i dettami della cultura orientale, possono generosamente permettere agli ex signori spodestati di salvare la faccia, come il nuovo Mister B sta concendo al vecchio Sciùr B.
Ma la “Silvioland”, il mondo di fantasia che Silvio cominciò a costruire nel 1986 proprio con il “Diavolo”, sta spegnendo nelle luci una dopo l’altra nelle sue attrazioni. Resta ancora un lumicino acceso nel padiglione di Forza Italia, alla quale però nessun cinese, thailandese, indonesiano sembra interessato. E che già è stata comunque prenotata e quasi comperata da tale Matteo Salvini, senza spendere un euro o un dollaro.
Vittorio Zucconi, la Repubblica 6/6/2015