Paolo M. Alfieri, Avvenire 6/6/2015, 6 giugno 2015
PETROLIO, IL PREZZO DEI RICCHI LASCIA A SECCO LA NIGERIA
Deve essere un mondo alla rovescia quello in cui il petrolio a buon mercato causa enormi difficoltà ai Paesi produttori più poveri, incoraggiando al tempo stesso, negli Stati più ricchi, l’uso eccessivo di una fonte così sporca di energia e facendo calare le nostre bollette. Potenza di un mercato, quello del greggio appunto, che a lungo è stato in mano ai soli 12 membri dell’Opec. E che ora è in cerca di un nuovo equilibrio, dopo il caos provocato dall’arrivo su piazza dello shale oil americano. Ieri a Vienna l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio ha stabilito di mantenere invariata la sua produzione a 30 milioni di barili di petrolio al giorno. Una decisione presa all’«unanimità» e in un clima «amichevole», ha tenuto a sottolineare il ministro del Petrolio saudita, Ali al-Naimi. E non è un caso che la precisazione sia venuta da un rappresentante di Riad.
Per anni si è andati avanti allo stesso modo: c’è una crisi nel mondo che deprime il prezzo del petrolio? Bene, l’Opec diminuiva la produzione riuscendo così, per effetto della minore quantità offerta sul mercato, a far aumentare il prezzo. Lo scorso novembre – con il greggio in caduta libera dopo aver toccato i 114 dollari al barile a luglio – di fatto il cartello salta: l’Arabia Saudita (numero uno dell’Opec) decide di non sostenere più il prezzo del petrolio ritenendo inutili i tagli alla produzione, dal momento che l’incremento della disponibilità sul mercato dello shale oil americano avrebbe comunque fatto abbassare i prezzi. Riad opta invece per la difesa delle sue quote di mercato (lo ha ribadito ieri) e agli altri Paesi dell’Opec non resta che adeguarsi: una mossa che però ha già avuto conseguenze drammatiche per i membri più vulnerabili del cartello, Nigeria in testa. Faticano anche Venezuela, Algeria e Angola. Il fatto di aver ottenuto ieri a Vienna l’unanimità rappresenta una vittoria politica per Riad, ma c’è chi ritiene l’attuale livello del Brent (ieri 61,92 dollari, in salita dai 45 di gennaio) comunque troppo basso.
Appena un anno fa, pur nel mezzo di un’escalation terroristica da parte di Boko Haram, la Nigeria brindava al sorpasso sul Sudafrica, diventando la prima economia del continente africano. Dodici mesi dopo, a calici ormai abbassati, la stessa Nigeria si ritrova intrappolata in una crisi petrolifera da cui non s’intravede via d’uscita. Vittima del duello tra Usa e Opec sulla produzione di greggio, Abuja sta sperimentando quanto sia dura dipendere da una sola fonte di introiti. Il petrolio rappresenta il 90% dell’export nigeriano e circa il 75% delle entrate statali. Quest’anno, però, le esportazioni caleranno a 52 miliardi di dollari, un crollo rispetto agli 88 miliardi del 2014.
Il Paese africano ha perso gran parte del giro nel suo principale mercato, gli Stati Uniti, e fatica a guadagnare terreno altrove, considerando anche che Arabia Saudita e Kuwait hanno aumentato in questi mesi la loro produzione assicurandosi i compratori asiatici. Il Bonny Light nigeriano, una varietà di petrolio un tempo altamente apprezzata, ora fatica a trovare spazio. Così le navi cargo di Abuja – il cui contenuto era solito essere venduto un mese prima della consegna – ora languono senza compratori. Secondo Barclays, a maggio almeno 80 milioni di barili di greggio nigeriano e angolano erano ancora in cerca di un acquirente.
La produzione nigeriana di petrolio è di circa 1,9 milioni di barili al giorno: nessun Paese africano produce di più, mentre a livello mondiale Abuja equivale più o meno alla Norvegia, attestandosi al tredicesimo posto. Il Bonny Light nigeriano è molto simile allo shale oil americano.
Contiene bassi livelli di solfuro ed ha una bassa densità, il che significa che scorre senza sforzo a temperatura ambiente e viene raffinato molto facilmente in prodotti ad alto valore come benzina e diesel. Le raffinerie americane, però, da tempo preferiscono acquistare il più economico shale oil, cosicché l’importazione di greggio nigeriano negli Usa è crollata dal milione di barili al giorno del 2010 ai 60mila barili del 2014. In altri Paesi il petrolio nigeriano ha gli stessi problemi a competere con prodotti più economici provenienti dal Medio Oriente.
Così se ancora nel 2014 il greggio di Abuja veniva venduto a 2 dollari sopra il prezzo di riferimento globale, quello del Brent, quest’anno quel sovrapprezzo non supera i 74 centesimi, il punto più basso dell’ultimo decennio. Secondo Deutsche Bank, la Nigeria ha bisogno di un prezzo del petrolio a 87,90 dollari per avere un bilancio pubblico in equilibrio, una quota che difficilmente verrà raggiunta presto.
Molti analisti ritengono che i 70 dollari di oggi equivalgano ai 100 dollari del passato, seppure il mercato fatichi a innalzarsi anche a questa soglia, restando intorno ai 65. Difficile, insomma, che i prezzi del barile di petrolio tornino quelli di un tempo, un’ottima notizia per gli automobilisti e per l’industria europea, una sentenza inappellabile per quegli Stati che nel tempo non hanno saputo, o potuto, diversificare. Alla vigilia del summit di Vienna, a dirsi «insoddisfatto» degli attuali livelli di prezzo è stato anche il ministro degli Esteri iraniano, Bijan Namdar Zanganeh. Teheran punta ad aumentare la sua produzione di un milione di barili al giorno non appena saranno eliminate le sanzioni Occidentali per il suo programma nucleare. Altri tre Paesi, Iraq, Angola e Venezuela, hanno definito «equo» un prezzo compreso tra i 75 e gli 80 dollari.
Ecco perché l’unanimità raggiunta a Vienna, nonostante i malumori della vigilia, ha soddisfatto così tanto l’Arabia Saudita, principale sponsor della fine dei tagli alla produzione. Riad avrebbe acconsentito a un taglio solo se il terzo produttore mondiale, la Russia, ne avesse seguito l’esempio: la paura saudita, infatti, è che Mosca possa sottrarre all’Opec la sua fetta di mercato.
Secondo le previsioni di Riad, la produzione dei Paesi non membri dell’Opec crescerà quest’anno di soli 680mila barili al giorno, in calo rispetto ai 2,17 milioni del 2014. E ciò dovrebbe far aumentare la domanda del mercato per il petrolio Opec. Una strategia che però potrebbe essere insufficiente a far aumentare di molto il prezzo, anche se l’Arabia Saudita è convinta che si arriverà «intorno ai 75 dollari al barile» entro fine anno.
Per la Nigeria e per gli altri Paesi più vulnerabili dell’Opec il momento, insomma, è delicato.
Nei giorni scorsi ad Abuja è entrato in carica il nuovo presidente, Muhammadu Buhari, proprio mentre il Paese sperimentava carenza di scorte di carburante. Un paradosso, dovuto alla mancanza di raffinerie locali che rende la Nigeria – il gigante d’Africa che galleggia sul greggio – dipendente dai prodotti petroliferi raffinati all’estero. E se mancano quelli si rischia una crisi anche peggiore, considerando che la rete elettrica è insufficiente e molto, se non tutto, funziona solo grazie ai generatori a diesel e benzina. Non un gran biglietto da visita, per la prima economia africana.