Adriano Sofri, repubblica.it 6/6/2015, 6 giugno 2015
LA VISITA
più importante di Giovanni Paolo II fu quella non avvenuta. Era il 1994, nel pieno dell’assedio, e il viaggio che aveva così fortemente voluto, fu cancellato. Lo avrebbero accolto folle di cattolici fervidi, come avvenne quando finalmente venne, e la guerra era finita. Come avverrà oggi a papa Francesco. Ma quella volta ad aspettare il Papa, con ansia e trasporto, era tutta la umiliata e decimata popolazione di Sarajevo, nella stragrande maggioranza musulmana, che non aveva ascoltato da nessuna altra autorità del mondo una voce così limpida sul martirio della città, la "Gerusalemme d’Europa", e sul dovere della comunità internazionale di intervenire a mettergli fine.
La Sarajevo bosgnacca accoglie oggi con simpatia il papa Francesco, ma senza aspettarsene molto, e sentendone la visita come destinata soprattutto alla comunità cattolica. La quale del resto è spaventosamente ridotta in tutta la Bosnia, e concentrata in Erzegovina, dove il malumore per il mancato passaggio del Papa - che visita solo Sarajevo - è ormai stagionato: il Vaticano (come il vescovo di Mostar) si tiene a distanza di sicurezza da Medjugorje, e anche dal nazionalismo che mette il cattolicesimo al servizio dell’"anima croata". Nell’uno e nell’altro caso i francescani erzegovesi tengono la prima fila.
A Sarajevo la vigilia di ieri, venerdì, era il giorno di festa musulmano, e la Begova Jamia, la moschea storica nel cuore di Bašcaršija, la città vecchia, era gremita dentro e in tutto il vasto cortile. Il gran muftì Husein Kavazovic, che il cardinale arcivescovo di Sarajevo, Vinko Pulijc, definisce "molto aperto al dialogo", è comunque fautore della distinzione fra religione e Stato. C’è in città una nuova moschea, la più grande dei Balcani, finanziata dall’Arabia Saudita e intitolata a Re Fahd, e frequentata da giovani e da avventori, a stare alle cilindrate, di rango sociale ragguardevole. Durante l’assedio era più influente l’intervento iraniano, di soldi e armi; i sauditi (e i regimi del Golfo) sono arrivati dopo Dayton, nella distrazione - chiamiamola - americana, e con loro i focolai di predicazione wahabita. L’influenza concorrente è la turca di Erdogan, anche lui mosso da ambizioni egemoniche religiose, e intimo di Bakir Izetbegovic, il capo del partito musulmano (Sda).
Il messaggio che Francesco ha anticipato - rivolto a "tutti": "La pace sia con voi" - si indirizza ad autorità politiche gelose, vanitose e largamente corrotte, e a una cittadinanza esausta e rinunciataria. Della ribellione operaia e giovanile che infiammò la Bosnia nel febbraio 2014, e per la prima volta mostrò di ignorare le divisioni "etniche", non è rimasto niente, si direbbe - nemmeno la coltivazione del ricordo. Tutti i sondaggi dicono che i giovani hanno un solo vero desiderio: emigrare; che per i bosniaci è particolarmente difficile. (Il termine "etnico", in Bosnia e nella ex-Jugoslavia, è del tutto abusivo, poiché le divisioni religiose sono intervenute storicamente in uno stesso popolo. E la vicendevole ferocia, nel caso dei croati cattolici e dei serbi ortodossi, mostrò come in campo cristiano ci si volesse scannare più o meno che in campo islamico sunniti e sciiti).
Pur fra ritardi e ostacoli enormi, la giustizia ha fatto un ampio corso all’Aja e nelle corti bosniache delegate, ma non è uscita dai tribunali per trasformarsi in un reciproco riconoscimento della verità e nella costruzione di una conciliata società civile. Srebrenica, dove il prossimo 11 luglio si celebreranno solennemente i vent’anni dal genocidio, fu assegnata a Dayton alla Republika Srpska, cioè all’"entità" degli autori del genocidio. Dopo l’annuncio del viaggio di Francesco, molte voci autorevoli si sono alzate per ricordargli che anche da parte cattolica si ostentano atti di complicità con autori di crimini di guerra, come Dario Kordic, condannato a 25 anni all’Aja, rilasciato dopo 17, e accolto a Zagabria con tutti gli onori (compresa la benedizione di un vescovo) e celebrato nel suo paese natale, in Bosnia, da una messa di ringraziamento, senza far parola del villaggio di Ahmici, dove Kordic massacrò 116 bosgnacchi, fra cui donne e bambini.
Tutti ormai sanno quello che fu chiaro fin dalla firma degli accordi di Dayton, 1995: che in Bosnia-Erzegovina la guerra è finita, ma la pace non è cominciata. Allora, niente era più importante che la fine della guerra - nome usurpato, quello di guerra, da una strage efferata, insensata e senza proporzione di forze. Via via che gli anni passavano, cresceva il peso di quella pace mai cominciata. È la strada che sembra prendere l’Ucraina, se non fosse che là non siamo nemmeno alla fine della "guerra". E oggi la virulenza islamista proietta la sua minaccia - ingigantita per paura o per calcolo dall’informazione - sulla Bosnia, e sullo stesso viaggio del Papa. Ma non è un viaggio annullato: il centro di Sarajevo, che a giugno vive di bar all’aperto, sarà in parte chiuso per ragioni di sicurezza. Quanto alle menti e ai cuori, Francesco spera di aprirle, aperto com’è lui: auguri.