Brunella Schisa, il Venerdì 5/6/2015, 5 giugno 2015
IL RAGAZZO DELICATO CHE FECE INNAMORARE UMBERTO SABA
TORINO. Si può pensare di uccidere un figlio per troppo amore? Sì, a giudicare dalla storia di Emanuele Almansi, libraio antiquario padovano nella cui libreria era passata l’intellighenzia degli anni Trenta e Quaranta. Almansi era tormentato dal futuro del figlio schizofrenico. La famiglia si portava dietro il male da generazioni, suo padre era morto in manicomio e l’idea che la stessa sorte toccasse a Federico gli toglieva il sonno. Dopo il fallimento della libreria non aveva nemmeno i soldi per ricoverarlo in una clinica, così una notte prese dal cassetto la rivoltella, entrò silenzioso nella camera del ragazzo, poggiò la canna sulla tempia, pronto a esplodere il secondo colpo contro se stesso. Non era destino. Federico si svegliò di soprassalto schivando il proiettile che gli entrò dietro l’orecchio senza ucciderlo. Era il 1952 e al processo la testimonianza di Emanuele commosse la corte che gli inflisse una condanna mite, appena tre anni.
Quando Federico si presentò in aula per scagionare il padre, del giovinetto tiranno dagli occhi di cielo che aveva sedotto e ispirato Umberto Saba, non era rimasto nulla. La malattia aveva spento i luminosi occhi azzurri e trasformato il fisico. Non c’era più traccia della bellezza apollinea che quindici anni prima aveva travolto il poeta triestino. Si erano conosciuti sul finire degli anni Trenta nella libreria di Emanuele Almansi a Padova. Federico era un tredicenne col viso d’angelo, la carnagione chiara, il corpo efebico, lunghi capelli chiari, occhi azzurri luminosi. Ancora non aveva i sintomi della malattia ed era un ragazzino dotato per la poesia e per la letteratura che studiava con profitto.
La storia di Federico, della famiglia Almansi e di Umberto Saba, ci viene adesso raccontata da Emilio Jona, scrittore e poeta piemontese, cugino del protagonista con un titolo evocativo Il celeste scolaro.
«A questo libro penso dal 1980, da quando è morto Federico e per oltre trent’anni ho preso appunti, come se avessi l’obbligo di strapparlo dal buio della malattia e riportarlo all’onore del mondo. Non è stato un lavoro facile, ma mi sembrava di doverglielo, anche per ridare dignità al padre Emanuele, un brav’uomo malinconico cresciuto con l’incubo dei geni malati. Anche lui li aveva, seppure non in forma patologica, e comunque lo negava. A trent’anni, credendo di essere sfuggito al male, si era sposato e per cambiare il sangue, aveva rotto con la tradizione borghese ed ebraica e preso in sposa una sana, giovane contadina analfabeta. Onorina. Ma non servì».
Siamo nella casa di Emilio Jona nel quartiere ottocentesco di Torino, sepolta di libri. A 88 anni Jona continua a scrivere e a svolgere la professione d’avvocato a Biella. Adesso che il romanzo è stampato sembra sollevato, non è stato facile scavare nella memoria e nei ricordi personali e poi con sapienza narrativa intrecciare invenzione e realtà.
«Quando è morto Emanuele tutti i documenti sono passati a me. Comprese le poesie di Federico che ora sono riuscito a far pubblicare da un piccolo editore. Federico non era un poeta eccelso, credo che la passione per la poesia gliel’abbia inculcata Saba che al contrario lo rispettava e ha scritto la prefazione alla sua prima e anche unica raccolta».
L’amicizia che legò il giovane poeta al maestro nel libro è raccontata con grazia e senza morbosità. Jona lascia parlare i versi. Saba così ricorda il momento in cui venne travolto dal bellissimo adolescente. Era al suo capezzale, Federico era malato, e su richiesta del padre Emanuele gli lesse delle sue poesie. Ripenso al male che ci unì feroce. /A quando ti ho veduto, malato, /nel lettuccio di ferro abbandonato, /e come un
buon dio mi hai salvato. Poteva un ragazzino salvare un uomo di oltre cinquantanni?
«Si salvarono entrambi. Per Saba Federico divenne la fonte ispiratrice di tutte le poesie, per Federico una fonte di conoscenza. Dopo quella lettura Federico decise di diventare poeta. Maestro ti vedo in terra/Buona voce punivi con amore./Insegnavi speranze e beni rari./ Fioriva la mia fresca età alla tua,/stanca, al declino. E nella chiara estate/a te venivo lungo il fiume, dove/di tante cose mi parlavi ignote». Emilio Jona recita a memoria e se ha un’esitazione va dritto alla libreria e prende il volume giusto al primo colpo. «Non ho voluto approfondire la natura della loro relazione, ma certo alcuni versi di Saba sono molto espliciti. Se a me dirlo non riesce/Morire è nulla, perderti è difficile. O ancora: Bocca fanciullesca, bocca cara/che dicevi parole ardite ed eri/ così dolce a baciare. Credo che il loro sia stato un rapporto socratico, in cui la sessualità era importante ma prevaleva la pedagogia, la preparazione del ragazzo alla vita. Sono convinto che sia stato Saba a portare Federico alla bisessualità, ma ho preferito lasciare molto in ombra il legame fisico perché lo considero irrilevante. Ci sono moltissime poesie che certificano l’omosessualità di Saba, oltre al romanzo Ernesto lasciato incompiuto e pubblicato dalla figlia Linuccia».
Dopo il fallimento della libreria di Padova, alla fine degli anni Quaranta, la famiglia Almansi si trasferì a Milano in via Andrea Dona. Jona scrive che quando Saba era in città andava ospite e dormiva con Federico. «Anche io ho dormito con loro, ai loro piedi, quando passavo per Milano. Non credo che per Federico sia stato un problema traumatico. Saba per lui era un dio in terra. Certo i genitori cominciarono a guardarli male».
Ancora una volta parlano i versi. Di Federico questa volta. Ho un amico, un poeta, in odio al padre/ Per lui vede la mia anima perduta. «Della perdita dell’anima di Federico si preoccupava anche la madre, Onorina, che ha distrutto le centinaia di lettere di Saba. Ne sono certo, perché alla sua morte, nel 1967, ne ho trovate soltanto un paio del tutto insignificanti. Invece Saba ha sostenuto che la sua opera più bella fossero proprio le centinaia di lettere scritte a Federico. Analfabeta totale, la madre col suo fiuto aveva saputo discernere. Onorina non è stata il solo censore del loro legame, lo stesso Saba non ha voluto pubblicare nel Canzoniere due poesie troppo esplicite dedicate al Fanciullo malato, uscite poi postume».
L’amore, l’amicizia, il sodalizio fra Federico e Umberto durarono fino alla fine degli anni Quaranta quando la malattia attesa e temuta da Emanuele si manifestò. Schizofrenia dissociativa, e cominciò il calvario dei ricoveri. Federico non aveva compiuto venticinque anni. «Emanuele ha sempre detto che se fosse riuscito a uccidere Federico si sarebbe ammazzato subito dopo. La sofferenza di vederlo in manicomio ridotto come un barbone è stata atroce. In certi momenti Federico nemmeno lo riconosceva e gli dava del lei. È stato terribile assistere al suo deperimento fisico e mentale. Morti i genitori gli ero rimasto soltanto io. Viveva in un suo mondo a parte, la malattia gli aveva cancellato a poco a poco tutte le emozioni e le pulsioni, spazzando dalla sua testa per sempre anche l’amato Umberto».
Brunella Schisa