Silvio Piersanti, il Venerdì 5/6/2015, 5 giugno 2015
TI REGALO UN MELONE. A TOKYO CHE VUOI DI PIÙ?
TOKYO. Quando la settimana scorsa Kuriko Watanabe, 24enne ingegnere telematica di Osaka, si è vista recapitare un cocomero come dono di nozze, non ha pensato ad uno scherzo di qualche amico buontempone. Al contrario, è arrossita di piacere per la preziosità del regalo. Sapeva tutto di quell’anguria. Ne avevano parlato i telegiornali in ampi servizi in cui spiegavano, tra l’altro, che era un cocomero Densuke, come testimoniava la sua buccia nera senza striature, che era uno dei 100 coltivati ogni anno in esclusiva nella città di Densuke, nell’estremo nord, che pesava 10 chili ed era imballato in una scatola di legno pregiato e che, infine, primissimo esemplare della stagione, era stato oggetto di una frenetica vendita all’asta in cui i maggiori ristoranti giapponesi se l’erano conteso facendo balzare il prezzo alla cifra record pari a circa 7.500 euro. Assegno firmato, tra gli applausi dei presenti, dal raggiante proprietario di un noto ristorante di Osaka, amico di famiglia della giovane sposa.
In Giappone, una primizia di frutta è uno status symbol molto ambito. I prezzi, sempre sbalorditivi, che le primizie di stagione raggiungono alle aste, sono notizie da prima pagina sui quotidiani nazionali. A Tokyo, la frutteria Sembikiya, è un vero tempio dei buongustai: gareggia in eleganza con le più raffinate vetrine dei creatori di moda. E i prezzi sono più consoni a una gioielleria che a un negozio di frutta. Un grappolo d’uva rossa Rubin Roman, composto da 15 acini di almeno 30 grammi di peso l’uno, grandi come palline da golf, è stato venduto per 6.500 euro. Non è certo un’uva che pilucchi svogliato alla fine di un pasto appagante: sono acini da 220 euro l’uno, oltre 7 euro a grammo.
Da Sembikiya e nelle numerose altre splendide frutterie che prosperano nelle maggiori città giapponesi, trovi anche frutta a prezzi meno astratti, ma proprio perché in qualche modo vorrebbero essere più vicini alla portata della gente comune, a noi occidentali sembrano ancora più assurdi. Qualche esempio? Un pacchetto con 20 ciliege, 100 euro; un melone, 125 euro; una pesca grande come un piccolo melone nostrano 90 euro, una mela, lavata con acqua e miele, 25 euro, una banana presentata in un astuccio di legno 10 euro, e via dilapidando. Molto richiesti i cocomeri quadrati fatti crescere in cubi di vetro. Debbono essere controllati più volte al giorno fino al completamento della maturazione. La loro forma cubica viene particolarmente apprezzata dai pignolissimi giapponesi perché si imballa meglio nei trasporti, si affetta con maggiore precisione e trova più facilmente posto nel frigorifero di famiglia. Tanto basta per giustificare un prezzo sei volte superiore a quello dei comuni frutti rotondi: invece dei normali 15 euro l’uno, possono costare oltre 90 euro.
Le angurie quadrate sono meno dolci di quelle rotonde, ma per la mentalità giapponese è un male minore: la priorità massima va sempre alla forma. Se al ristorante ordini una fetta di cocomero quadrato vieni invidiato dai commensali dei tavoli vicini, anche se loro stanno gustando un cocomero più succulento (e molto meno caro) del tuo, perché lasciato crescere rotondo come natura comanda. O comandava.
Capita spesso agli stranieri (anche al vostro cronista) di ritenere che il prezzo esposto accanto alla merce indichi il costo al chilo del prodotto che si vorrebbe acquistare, e invece quando la commessa ti porge il tuo vassoio con cinque pere, con uno smagliante sorriso e un profondo inchino, scopri che quella cifra si riferiva ad un solo esemplare: quelle invitanti pere non costavano 15 euro al chilo, ma 15 euro l’una. Difficile poi fare marcia indietro, balbettando parole di scuse, anche perché la confezione della merce, qualunque sia l’importo speso, è una vera arte in Giappone: comporta due, tre, persino quattro diversi involucri di carta. E ogni ripiegamento della carta è fatto con precisione millimetrica e sapiente grazia, di chiara derivazione dall’arte millenaria dell’origami (dal giapponese Ori, piegare; kami, carta) in cui bambini e bambine giapponesi si esercitano sin dalle scuole materne.
Perché mele, pere, pesche, mango, uva, nespole, fragole, kiwi e qualsiasi altro frutto che vedete esposto è così perfetto, così invogliarne all’acquisto ad onta del prezzo sempre esoso? Il segreto è semplice: per il coltivatore giapponese, ogni singolo frutto è prezioso, richiede cure continue, a volte maniacali. Lui considera una missione offrire al mercato un prodotto di assoluta perfezione sia nella forma, nel contenuto e nella confezione. La qualità conta più della quantità. La meticolosità, il perfezionismo estremi che il lavoratore giapponese dispiega nell’alta tecnologia, ottenendo prodotti di mitica qualità totale globalmente invidiati, li si ritrovano anche nell’agricoltura. Ogni singolo frutto, sia esso una pesca o un fico, una mela o un kaki, nella fase critica viene avvolto, ancora sull’albero, in un sacchetto di carta speciale per proteggerlo da insetti nocivi, sbalzi di temperatura, danni estetici e per prolungare di un paio di settimane la fase finale di maturazione sull’albero e alzare così anche del 15 per cento il livello di dolcezza.
Ci sono oltre tremila tipi di sacchetti protettivi. Differiscono in grandezza, in quantità di luce che lasciano trasparire, nello spessore di cera di cui possono essere ricoperti, nei prodotti pesticidi di cui possono essere impregnati. Hanno un filo di metallo lungo il bordo superiore per facilitare l’avviluppamento del sacchetto attorno al frutto sull’albero. Piccole fessure nel fondo del sacchetto assicurano che non si verifichino ristagni di acqua piovana a contatto con il frutto.
Ovviamente, perché questa tecnica sia remunerativa occorre che si basi sul connubio accuratezza-velocità. Un bravo frutticoltore riesce a incappucciare cento frutti in una trentina di minuti. Ci sono anche gare nazionali di velocità dove si raggiunge la sbalorditiva media di 100 sacchetti in 8 minuti. Ma si sta già pensando – siamo in Giappone, no? – a robot in grado di arrampicarsi sugli alberi per sostituirsi all’uomo nella delicata operazione di incappucciamento e raccolta.
La frutta giapponese sembra uscita dalle nature morte dei grandi maestri europei del diciottesimo secolo, e spesso soddisfa più la vista che il palato: tuttavia, non di rado, il suo compito principale non è soddisfare l’una o l’altro: ma solo solleticare l’orgoglio di chi torna a casa con un trofeo che pochi privilegiati possono permettersi.
La prima coppia di mango di quest’anno è stata venduta qualche settimana fa per 300mila yen (2.400 euro). I due frutti avevano tutte le carte in regola per essere messi all’asta: erano i primi della stagione, erano del tipo più pregiato, chiamato per la sua dolcezza e il suo colore Tayio no Tamago (Uovo del sole), pesavano oltre 350 grammi l’uno, non avevano il minimo difetto estetico. Se li è aggiudicati un grande magazzino di Fukuoka, Giappone meridionale, che si è ripagato della spesa ottenendo molta pubblicità indiretta su giornali e televisioni. Una cifra tutto sommato modesta se si pensa che il primo melone della stagione del 2011 – un melone Yubari, ossia coltivato nella città eponima del Giappone settentrionale – è stato aggiudicato ad un ristorante di Sapporo, Giappone settentrionale, per 12.500 euro.
I cocomeri più grandi vengono venduti completi di un grazioso carrello per trasportarli. Nulla viene risparmiato perché al cliente venga offerto un prodotto perfetto sotto ogni punto di vista, tranne quello dell’economicità. Una filosofia produttiva adatta ad un Paese ricco come il Giappone, dove il problema non è far quadrare i bilanci, ma i cocomeri.