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 2015  giugno 05 Venerdì calendario

LE CATTIVE NOTIZIE CI FANNO MALE


Perché dobbiamo sempre essere così negativi? Facciamo davvero del bene alla società? È proprio necessario che una buona storia debba essere (quasi) sempre negativa? Come possiamo salvare il giornalismo aiutandolo anche a salvare il mondo? Questo è il tema di fondo della nuova teoria del ‘constructive news’, il giornalismo costruttivo, che sta circolando in tutto il mondo nelle redazioni, nelle scuole di giornalismo, fra gli editori, i manager, gli analisti sociali, i relatori pubblici. Infaticabile, appassionato profeta e ispiratore del movimento del constructive news è il giornalista danese Ulrik Haagerup, dal 2007 direttore news della DR, la televisione pubblica danese. Ha 52 anni, è stato direttore di Nordjyske Medier e prima ancora del Morgenavisen Jyllands-Posten. Nel 1990 ha ricevuto il premio Cavling, equivalente danese del Pulitzer. In questi ultimi anni, sotto la sua direzione, i programmi d’informazione delle reti DR hanno raggiunto la vetta nella classifica europea negli indici comparati di audience.
Nel corso di una recente telefonata Haagerup mi ha raccontato l’origine, per lui, di questa crociata: “Diversi anni fa ho incontrato una giovane ragazza, compagna di classe di mia figlia, che con una certa aggressività mi ha detto: ‘Ma che mestiere fai? Il mio professore mi ha obbligato a guardare per una settimana intera il tuo telegiornale tutte le sere, e ci ho messo un’altra settimana per riprendermi dalla depressione e dalla disperazione’”.
“Questo episodio mi ha colpito”, continua Haagerup, “e la settimana successiva ho seguito anch’io tutti i telegiornali provando a mettermi nei suoi panni. Aveva ragione”.
“Non ho mai pensato, e meno che mai penso oggi”, ragiona il direttore delle news di DR, “che le notizie non vadano date se negative oppure che il nostro ruolo nella società non sia quello del ‘watchdog’ (cane da guardia) critico con i potenti. Mi sono però chiesto – soprattutto con le nuove possibilità che oggi ciascuno ha di contribuire alla costruzione e alla condivisione dell’informazione – se non fosse più sensato osservare il mondo con due occhi, anziché con uno solo. Non soltanto quello stereotipato che mette in cima alla gerarchia delle notizie ‘l’uomo che morde il cane’ o il ‘if it bleeds it leads’ (se sanguina tira), come dice Carl Bernstein, il famoso giornalista del Watergate, ma anche un secondo occhio capace d’individuare quale sia la migliore versione ottenibile di una notizia: con lo scopo di proporre una visione il più possibile completa, così che il tuo interlocutore (ormai dialoghiamo ogni minuto con quelli che una volta erano solo ascoltatori o lettori) possa farsi un’opinione e decidere per conto suo”.
Secondo Haagerup diversi segnali dimostrano che questo metodo funziona: “Da quando ha modificato il processo produttivo dell’informazione”, spiega, “la televisione pubblica danese è passata dal quarto al primo posto negli ascolti. Ancora più significativo è il fatto che negli ultimi due anni sia triplicata la condivisione dei suoi servizi da parte degli utenti, sia direttamente sia tramite i social media”.
Simili risultati si registrano anche in altre testate che hanno deciso di adottare questo approccio: dall’Huffigton Post per il digitale che, con i suoi 200 milioni di contatti giornalieri, è diventato il maggiore media del mondo superando Cnn; al settimanale tedesco Die Zeit per la stampa, alla radio svedese e altri ancora.
Secondo Nathalie Labourdette, direttore formazione della European Public Broadcasting Union, che raccoglie 75 imprese di 57 Paesi, “il giornalismo costruttivo è un nuovo modo di pensare e risponde alla domanda sul perché la qualità del giornalismo è importante per la società, affidando al nostro modo di fare giornalismo un senso chiaro e distintivo”.
Ecco qualche esempio concreto che Ulrik Haagerup racconta nella prefazione alla terza edizione del libro ‘Constructive News’, edito da Innovatio Ag, in uscita nei prossimi giorni. “I lettori danesi forse ricordano la storia dell’allevamento dei suini a forza di antibiotici. Uno scandalo internazionale, di cui ci siamo occupati prima e più dei nostri concorrenti. Avevo chiesto al collega che seguiva la storia di dargli un taglio costruttivo. Ed ecco che salta fuori un allevatore olandese che ci spiega un sistema di allevamento di pari efficacia senza l’impiego di antibiotici. Gli diamo ampio spazio, le autorità sanitarie confermano e la pratica si diffonde. Attenzione: di sicuro l’allevatore olandese esisteva, ma non sarebbe saltato fuori se non avessimo adottato un approccio costruttivo. Un’altra storia esemplare, quella del recente fallimento di una banca locale per insufficienti controlli. Abbiamo ovviamente dato tutto ciò che davano gli altri, ma abbiamo anche avviato, sera dopo sera, servizi sui metodi di controllo in uso in altri mercati. E questo ha portato i decisori pubblici a intervenire evitando così altri fallimenti. In sostanza, i nostri giornalisti si sentono sempre dei watchdog, ma watchdog propositivi che si sforzano di trovare e suggerire soluzioni per evitare altre conseguenze negative”.
C’è chi vede nel giornalismo costruttivo una forte carica di ambiguità. Altri parlano di morte del giornalismo investigativo e di una nuova gabola per meglio consolidare un sistema mondiale dei media sdraiato sui potenti che lo governano. E c’è chi invece lo considera un nuovo approccio per meglio affrontare la sfida della postmodernità da parte di un giornalismo a cui viene sempre più frequentemente rimproverato di contribuire alla tossicità socioculturale dell’ambiente.
Non è solo in discussione – e forse per la prima volta avviene in pubblico – un giornalismo che fa i conti con se stesso, ma un diverso approccio a una professione considerata dai più, da almeno due secoli, un’essenziale e vitale energia per le nostre democrazie.
La prefazione del libro di Haagerup illustra una sorta di panoramica dell’effetto che la diffusione del constructive journalism ha avuto in altri Paesi. Dickens Olewe, giornalista kenyota del The Star (www.the-star.co.ke), dice: “Perché non fare uno sforzo in più per suggerire una soluzione? Perché non raccontare anche storie di cose che funzionano? Questo potrebbe fortemente contribuire a mutare il discorso pubblico africano e influire sul nostro processo democratico e sulla selezione dei leader. In Africa vogliamo cambiare il paradigma per contribuire a un domani migliore. Quando ci si rende conto che la visione del constructive journalism non è un attacco al giornalismo investigativo e neppure l’ambizione di realizzare una sorta d’informazione nordcoreana, si comprende che la crisi del sistema dei media non sta tanto nei modelli di business, ma soprattutto negli effetti che i suoi contenuti producono sui cittadini, che voltano la schiena al reporting tradizionale perché non trovano senso né rilevanza nel deprimente panorama del mondo che presentiamo loro sotto le sembianze d’informazione”.
Jimmy Maymann, ceo di Huffington Post, è convinto che “non siamo interessati soltanto a cose che non funzionano. Vogliamo anche facilitare e stimolare un dibattito su aspetti che, almeno in potenza, possano ispirare. Noi abbiamo cominciato nel 2012 con la sezione ‘Good news’, ma ora abbiamo deciso di spalmare l’applicazione del constructive journalism su tutta la nostra piattaforma, con 200 milioni di utenti giornalieri, con il modello ‘what’s working’ (cosa funziona). Certo che ci occupiamo anche dei tanti disastri, ma succedono molte altre cose e ci sforziamo di motivare le persone a migliorare il mondo, piuttosto che semplicemente a tenerle informate sul suo deterioramento. E abbiamo avuto riscontri positivi: le persone sono attratte da storie che costruiscono, le fanno circolare e le commentano molto più che con le notizie tradizionali”.
Anne Lagercrantz, direttore dei servizi radio di Ekot in Svezia, ha incluso il giornalismo costruttivo nella sua visione del futuro: “È tempo di un cambiamento”, sostiene, “e il concetto di constructive news ci aiuta a rivedere il nostro approccio anche dal punto di vista creativo, in un mondo dove tante cose sono cambiate nel nostro settore e la competizione è così intensa. Oggi mandiamo in onda storie che prima non avremmo scelto: ad esempio, un servizio sul perché sia crollato il numero di morti di malaria”.
Sempre in Svezia, da quando la tivù pubblica finlandese Yle, che trasmette anche canali in svedese, ha introdotto il giornalismo costruttivo sono usciti oltre 400 servizi con questo taglio. Il direttore esecutivo Jonas Jungar racconta: “La risposta del pubblico è stata subito molto positiva e si può riassumere con un ‘Era ora!’. I miei colleghi della redazione erano più scettici, ma pienamente consapevoli della necessità di reinventarsi e dei rischi che comportava. Dopo qualche mese il concetto è stabilmente integrato nel nostro modo di lavorare”.
Anche Olov Carlsson, responsabile della sala news del canale Svt, conferma: “Abbiamo riorganizzato la nostra redazione esteri: invece di parlare solo di fame nel mondo, carestie, guerre e violenze, diamo spazio anche agli sforzi di democrazia, di vitalità produttiva e culturale dei Paesi africani. Siamo stati criticati dal governo e anche dalle ong perché, con questo modello informativo, non sollecitiamo le donazioni e la raccolta di fondi per le vittime. Ma non può essere questa la ragione del giornalismo: dobbiamo mostrare il più possibile la situazione per quella che è e non allo scopo di stimolare il fundraising”.
La mia telefonata con Ulrik Haagerup si conclude così: “Per me il giornalismo costruttivo vuole essere un forte richiamo verso un sistema dell’informazione paralizzato e infetto da cinismo diffuso. Non parlo di un’alternativa al tradizionale giornalismo d’inchiesta e non suggerisco di darci tutti a filmati come quello del gatto sullo skateboard che milioni di persone hanno visto su YouTube. Dico solo che il buon giornalismo oggi deve essere anche capace d’ispirare soluzioni ai molti problemi sociali che viviamo. Abbiamo gli strumenti per farlo, soprattutto se discutiamo di queste cose apertamente e in pubblico”.
Nel mondo analogico, conclude Haagerup, “presentavamo delle notizie di ieri, nel mondo digitale raccontiamo l’hic et nunc. Oggi il giornalismo costruttivo ha il potenziale per ispirare e contribuire a costruire un futuro migliore. La crisi di fiducia che ha investito tutte le leadership, dalla finanza alla politica, colloca noi giornalisti dopo i venditori di auto usate. Conviene esserne consapevoli e cercare rapidamente soluzioni”.
Toni Muzi Falconi