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 2015  giugno 05 Venerdì calendario

E MICHELANGELI DIVENNE IL NUOVO LISZT

Arthur Schopenhauer sosteneva che i grandi filosofi della storia stanno sulle dita di una mano. Con la musica possiamo essere un po’ più generosi, rimanendo solo all’ultimo Dopoguerra: Arturo Benedetti Michelangeli sarebbe sicuramente fra i prescelti, insieme a Vladimir Horowitz, Sviatoslav Richter, Arthur Rubinstein e Claudio Arrau. Il mito di Michelangeli cominciò con la frase di un altro grande pianista, Alfred Cortot: «È nato un nuovo Liszt». Frase che Cortot, come membro di giuria, pronunciò dopo aver ascoltato il diciannovenne bresciano affermarsi al prestigioso Concorso di Ginevra, nel 1939.
Il nuovo Liszt era un giovane bellissimo, dal volto pallido ed emaciato, con occhi fascinosi che seminarono una schiera di vittime nell’altra metà del cielo. Aveva cominciato a studiare musica a quattro anni, aveva preso il diploma di pianoforte a quattordici al Conservatorio di Milano. Nella Berlino hitleriana, il ragazzo aveva sbalordito un maestro futuro, Sergiu Celibidache: «Lui aveva 18 anni e io 26. Una cosa paralizzante. Ho ringraziato Dio di non essere pianista. Il suo dominio della tastiera era miracoloso». Era andato in Inghilterra nel 1946, negli Stati Uniti nel 1948, a Varsavia nel 1949 per celebrare il centenario chopiniano. Aveva cominciato a insegnare per chiara fama a Bologna e a Venezia e a Bolzano, e in corsi di perfezionamento ad Arezzo e a Siena.
D’origine aristocratica, disprezzava la volgarità prosaica di alcuni italiani, al punto di preferire l’esilio, in seguito a una vicenda legata al fallimento di una casa discografica, per la quale egli aveva acconsentito all’uso della propria firma. Gli ufficiali giudiziari non trovarono di meglio che rifarsela su di lui. «L’ Italia era il Paese dei grandi musicisti, adesso è il Paese dei grandi canzonettari», commentò. Inizierà così, da parte dei melomani, un lungo, incessante inseguimento nei teatri d’Europa. Lui si faceva precedere dal suo Steinway e dall’accordatore di fiducia, e quando lo strumento s’era ambientato, come un alpinista all’alta quota, lo raggiungeva per il concerto.
Questo l’artista, ma l’uomo? All’educazione del piccolo Ciro, come era chiamato in casa, provvide soltanto la madre. Alta, slanciata, autoritaria. Esercitò notevole influenza sui suoi progressi d’artista. Sicuramente la mancata esperienza scolastica non svilupperà in Ciro il senso della socialità: fu per tutta la vita uomo di poche e tenaci amicizie.
Insomma, Michelangeli non fece nulla per scendere sulla terra. E questo condizionò anche la sua vita di concertista. Chiedeva cachet altissimi, dicono, ma insegnò gratis per decenni. E faceva le bizze come un bambino, o come un grande talento capriccioso: a Parigi, smise di suonare perché aveva freddo alle mani, a Bregenz, per tre colpi di tosse, rifiutò un bis. A Zurigo, invece, fu colpa dell’ aria condizionata.
Perché tuttora la leggenda di Michelangeli non è scalfita dai miliardi di brusii dell’epoca di Internet, dalle leggi del mercato imposte dalle case discografiche? Per la cura ossessiva che poneva nella resa del dettaglio esecutivo, del minimo passaggio, scolpendolo con freddo raziocinio, levigandolo con visionaria tenacia, impreziosendolo con vivide sottolineature. Ricreando a ogni esecuzione, con ciò, l’attimo fuggente del mistero che accompagna la nascita del fenomeno artistico. Come una specie di Indiana Jones alla caccia di immoti e trascorsi monumenti, Michelangeli ricercava scrupolosamente il testo originale dell’opera, della partitura, familiarizzando necessariamente con la storia delle abitudini tecniche finalizzate alla sua realizzazione. Con la grinta di un chirurgo d’alta scuola lo rianimava a nuova vita, pur consapevole delle modifiche che il senso comune aveva imposto al gusto. Vigilandone l’esecuzione affinché non divenisse un vuoto, ripetitivo prodotto, quale al giorno d’oggi può essere reso dagli automi e dal computer. Un vero e proprio artigiano del sublime, dunque.
Nella prima uscita della raccolta dell’”Espresso” (venerdì 12 giugno a 6,90 euro in più), lo affianca Sergiu Celibidache, fra i pochi amici e direttore che s’interessò di fenomenologia musicale. Probabilmente, sul palcoscenico, il partner prediletto da Michelangeli. Entrambi sono impegnati nel Quinto concerto di Beethoven, soprannominato, non dall’autore, Imperatore: uno di quelli che il pianista eseguì più di frequente. Conserviamo infatti un breve frammento di una registrazione ginevrina del 1942, una completa del 1947 alla Scala e poi altre dieci, due delle quali appunto con Celibidache, del 20 maggio 1969, e questa de “l’Espresso”, del 16 ottobre 1974. La tecnica è virtuosistica e sono esibite alcune delle “specialità” di Benedetti Michelangeli, come i trilli fitti e regolari. Niente comunque di istrionico, poiché l’ascoltatore ideale a cui l’interprete si rivolge non è il pubblico, ma il compositore. Esecuzione in cui si avverte l’anelito alla rinuncia dell’ego, in completa e umile dedizione all’Autore.