Paolo Di Stefano, Sette 5/6/2015, 5 giugno 2015
NEL LIBRO N. 1.000, LA LEZIONE DISCRETA DI ELVIRA SELLERIO
È un ritratto a più voci il volume numero 1.000 della collana «La memoria». Un omaggio a donna Elvira Sellerio che viene dai suoi autori. Grande architetto dell’editoria, Elvira Sellerio, e autrice a sua volta, come sono gli editori che con i libri degli altri compongono la loro opera. La Signora, come veniva chiamata in redazione, dal 1979 ha costruito una cattedrale con piccoli mattoni blu, quelli della “Memoria”, la collezione nata da un’idea di Leonardo Sciascia dieci anni dopo la fondazione della casa editrice palermitana: piccoli libri di servizio alla società ma di «cultura amena», nel senso che dovevano evitare ogni sospetto di zavorra ideologica e presentarsi al pubblico con eleganza e leggerezza. Un equilibrio magico di coraggio ed entusiasmo, di leggibilità e qualità. Il massimo per un editore che intenda fare cultura senza naufragare nell’indistinto del mercato evitando di farsene travolgere. Il tutto affidato a libretti di formato insolito, 12 x 17, stampati su carta vergata delle Cartiere Milani di Fabriano, con sovracoperte in carta Ingres Cover e illustrazioni quadrate a 6 colori. Il blu, scelto dal genio di Enzo Sellerio, il fotografo marito di Elvira, è inconfondibile al punto da eludere le tante imitazioni che verranno. Non sono nudi dati tecnici, sono l’essenza stessa della “Memoria”, parte del libro come i suoi contenuti. Un’alchimia che, quando è capace di durare, si realizza poche volte in un secolo: il bianco di Einaudi, per esempio, o i colori pastello di Adelphi. Si partì con un libretto di Sciascia, Dalle parti degli infedeli.
Affettuose correzioni. C’è solo l’imbarazzo della scelta, tra le testimonianze e i ricordi raccolti nel volume numero 1.000, La memoria di Elvira, che tengono fede all’ispirazione sciasciana: eleganza e leggerezza, appunto. Andrea Camilleri si rivede emozionato al primo incontro con la sua «generosità mai ostentata», da cui molti anni fa nacque un’amicizia siciliana, fatta di complicità silenziosa. La sensibilità editoriale gli si rivela quando Elvira lo avverte dei due pericoli insiti nella sua prosa: la commistione eccessiva di dialetto e lingua e il «barocchismo» non sempre necessario nella costruzione della frase. Sono lezioni discrete di cui è capace solo un editore che conosce bene il proprio mestiere e che sa esercitarlo con intelligenza, senza urtare l’inevitabile permalosità dell’autore.
Dire che oggi questa sensibilità prima di tutto umana è merce rarissima è pleonastico, ma ripeterlo può essere utile. Basta leggere le pagine di Francesco Recami, quelle di Maria Attanasio o quelle di Luciano Canfora per cogliere al meglio la lucidità del disegno della Signora, il cui fiuto rabdomantico, pari solo all’ostinazione (anche nel rifiuto) e alla disponibilità all’ascolto, si traducono non solo nei titoli desiderati ma anche in quelli nati da un incontro, da un incrocio o da un’occasione imprevista.
C’è un ritratto ravvicinato molto bello nel libro: è tracciato con garbo da Daria Galateria: «Il viso triangolare (modernissimo, e più che bello: avvincente) di Elvira era un teatro; le rughe erano le tende che si aprivano sui sentimenti e i personaggi mobilissimi che entravano in scena. Rughe di sole, non di tempo; occhi nocciola, per guardarli meglio. A scompaginare il rapporto di forza tra i suoi tratti, si apriva il bagliore dei denti, il riso spezzato della difesa, lo scintillio dell’acume, l’apertura di credito del fascino. Le sigarette erano, in quel volto, il sacrosanto puntello di una vita piena evidentemente di tensioni». Appaiono qua e là interni di famiglia, con i piccoli Olivia e Antonio, che ancora non potevano sapere che il testimone della casa editrice sarebbe passato a loro. Adriano Sofri ci mostra Elvira Sellerio nella sua casa in cui morirà nel 2010 a 74 anni, la casa di Marina di Ragusa, Contrada Gaddimeli, con la sua biblioteca in cui si trovavano rigorosamente catalogati anche i suoi libri di bambina, tra cui la collana più amata, la “Scala d’Oro” della Utet. La Signora confessò di aver tratto da lì il proprio amore per la lettura. Alludendo all’impresa del modenese Formiggini, Sofri ricorda che «fare l’editore per amor di libri e di lettura era stata più volte un’impresa arrischiata». I libri possono generare odio e invidie. In Sicilia, poi, nel 1969, e con un capitale modestissimo…
Per le cause perse. Anche per Elvira vennero i tempi durissimi della resistenza a oltranza, contro le accuse ingiuste e le infamie. E come sempre per gli editori che non lo cercano, dopo la crisi più nera, viene il momento del riscatto, inatteso. I successi insperati. È Giuseppe Scaraffia a ricordarlo: «Mentre gli altri editori vivevano e vivono ancora in attesa del best seller, Elvira coltivava un amore donchisciottesco per le cause perse. Il suo metro non era il successo, ma, ancora una volta, la qualità, in questo caso della scrittura». Il segreto era (e rimane) in due verbi assonanti, osare e dosare: far convivere la raffinatezza eccelsa di Consolo con i gialli di Vázquez Montalbán, Tabucchi con Alicia Giménez-Bartlett, Bufalino con Puig e Camilleri.
Partendo da una fotografia scattata nello studio di Elvira, Salvatore Silvano Nigro, consulente tra i più fedeli e ascoltati, ricostruisce un quadro d’insieme: è il 1987, anno dell’uscita di Retablo di Consolo. Sciascia non c’è, nella foto, ma è come se ci fosse. Si parla di lui, la Signora raccontava a Nigro e all’amico Vincenzo di un suo disaccordo con Leonardo: mentre lei voleva rilanciare l’antropologo di Chiaramonte Gulfi Serafino Amabile Guastella in quanto studioso, lui lo voleva riproporre al pubblico come narratore. Si trattava di scegliere un curatore. Sciascia voleva che fosse un letterato, lo stesso Nigro, Elvira preferiva che se ne occupasse l’etnologo Nino Buttitta. «Ci chiese di convincerla di avere torto su Guastella. Non fu così. Ci convincemmo delle sue ragioni. E insieme convincemmo Sciascia». Bella storia. Dice bene della passione dei dettagli con cui si fanno i libri. Elvira, che come Sciascia non amava i «professori in parrucca», aveva imposto a Nigro «un patto con il racconto»: «Aveva voluto», ricorda Nigro, «che i miei risvolti ai romanzi di Camilleri fossero, in miniatura, dei racconti critici. E da allora è cambiato il mio modo di scrivere saggi». Un grande editore, se è davvero grande, è più forte di tutti, si impone con le sue ragioni che diventano anche le ragioni dei suoi autori. È quello che Nigro chiama il «sottofondo affettivo» il vero motore dei libri e del rapporto tra autore ed editore. E quando questo non c’è, l’editoria è solo mercato. O cialtroneria da incapaci e furbi. Mai dimenticarsi che esistono anche gli editori in parrucca. Sono i peggiori.