Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  giugno 02 Martedì calendario

QUELL’IDEA RISTRETTA DI PAESE CHE NEGA LA NOSTRA STORIA

C’ è un rapporto e quale tra la Repubblica Italiana di cui si celebra oggi il 69° anniversario e la Nazione italiana? La festa della Repubblica, insomma, fino a che punto ha diritto, al di là di definizioni formali, ad essere considerata una festa realmente nazionale? Una domanda del genere apparirebbe impossibile altrove, per esempio in Francia o negli Stati Uniti a proposito delle rispettive feste nazionali del 14 o del 4 luglio. In Italia invece può trovare posto perché da tempo, qui, una considerevole corrente intellettuale tende ad affermare l’idea che una comunità politico-statale s’identifica non già nella complessità della sua identità storico-culturale — di cui è naturalmente parte importante anche l’evoluzione della sua forma giuridico-costituzionale — bensì solo in quest’ultima.
La comunità politico-statale con la nazione non c’entra, insomma: essa consiste solo nella sua forma giuridico-costituzionale quale si manifesta per antonomasia nella sfera dei diritti. Se dunque si parla della festa del 2 giugno, di che cosa essa rappresenta, la forma repubblicana e la Costituzione sono tutto, la Nazione è nulla.
A tale punto di vista ha dato voce da ultimo Nadia Urbinati ( la Repubblica , 31 maggio). Dei tre ordinamenti politici che l’Italia ha avuto da che è unita, scrive — quello monarchico-costituzionale, quello fascista e quello repubblicano — oggi si festeggia solo questo. Dunque non già tutta la storia politica, sociale, culturale e civile del Paese ma «soltanto quella che ha preso avvio nel 1946», «la Nazione repubblicana e solo quella». Solo il 2 giugno 1946, infatti, gli Italiani hanno potuto decidere con quale forma politica reggersi, sono stati davvero politicamente liberi, e — cosa altrettanto importante — solo dopo quella data la Nazione non è stata più una nazione maschile, «incapace di rappresentare le donne italiane come cittadine». Solamente la Repubblica ha cambiato il loro status e insieme quello dell’intera società.
Si potrebbero muovere a questi giudizi alcune obiezioni di fatto che a me sembrano di non poco conto. Per esempio che in realtà anche nel 1860-61 gli italiani scelsero con i plebisciti la forma politica con cui voler essere governati: sia pure in consultazioni elettorali le cui modalità oggi ci sembrano inaccettabili (a cominciare dalla sostanziale mancanza di segretezza del voto), ma che allora erano analoghe a quelle vigenti per esempio in un Paese di antica tradizione parlamentare come la Gran Bretagna. Così come si potrebbe obiettare che adottando il criterio della parità uomo/donna o altri simili le feste nazionali di quasi tutti gli Stati euro-americani perderebbero ogni loro legittimità: forse che la Rivoluzione francese mostrò qualche interesse per i diritti delle donne? O forse che i patrioti americani misero fuori legge la schiavitù? Infine si potrebbe anche aggiungere che il 2 giugno del ’46 gli italiani non votarono per la Repubblica democratica che conosciamo noi. Votarono esclusivamente per la Repubblica contro la Monarchia, dal momento che, come è noto, la Costituzione — solo alla quale noi dobbiamo la nostra democrazia (e che peraltro non fu mai sottoposta al loro giudizio) — era ancora di là da venire. Che poi in generale la Repubblica in quanto tale rappresenti un regime più democratico della Monarchia è palesemente falso: basti pensare ai Paesi del blocco sovietico di ieri o al Venezuela e alla Corea del Nord di oggi, tutti fior fiore di repubbliche.
In realtà, separare la Repubblica dalla Nazione ha il solo effetto di ridurre di molto la portata e la capacità inclusiva della prima, e dunque di indebolirla. La fedeltà alla Repubblica, infatti, non è assicurata tanto dal dettato necessariamente astratto di questa o quella norma, quanto soprattutto dallo spirito civico che induce a riconoscersi in esse e ad obbedirvi. E un tale spirito civico non nasce certo da alcun «patriottismo costituzionale» — che è una pura invenzione di professori, sia pure animati dalle migliori intenzioni — bensì nasce dall’avvertire dentro di noi (se lo avvertiamo) un sentimento di obbligazione verso la collettività di cui facciamo parte, in forza dei legami molteplici che abbiamo con essa e che in un modo o nell’ altro si ricollegano tutti alla sua lunga storia. Anche il valore della libertà (che è innanzi tutto la libertà che siamo disposti a riconoscere agli altri) così come quello della solidarietà traggono alimento vitale da quei legami. Anche l’accoglienza degli stranieri, se vuole essere effettiva e non consistere nel semplice rilascio di un pezzo di carta, che cosa altro può essere se non l’accoglienza dentro una comunità, se non la volontà d’integrare nella propria realtà, cioè nella propria storia, quella che ogni altro porta con sé?
La Repubblica che abbiamo voluto democratica è tanto più forte, vorrei dire egemone, e dunque tanto più legittimata, quanto più essa riesce a rappresentare e ad essere percepita, non come qualcosa che nasce e vive solamente di ciò che è accaduto dal 1946 in poi, non già come una frattura della storia nazionale, ma all’opposto: come il suo esito migliore. Del resto, nata dalla divisione, essa ha dimostrato in settant’anni, nonostante le traversie e le divisioni politiche, una capacità di unire e di mettere insieme che inizialmente forse pochi le attribuivano. Lo ha potuto fare perché sono stati innanzi tutto i cittadini ad identificare nella Repubblica lo spirito della collettività e delle sue lunghe vicende: per esempio — lo si può ricordare? — assistendo sempre numerosi a quella cerimonia così significativa in senso storico-nazionale che è la sfilata militare lungo via dei Fori Imperiali; e anche a costo, così facendo, di contraddire tutti i venerati maestri, e maestre, che vorrebbero imporre alla realtà la camicia di Nesso delle loro ideologie.