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 2015  giugno 02 Martedì calendario

LA SINDROME DELL’INVINCIBILE LE SPINE DEL GOVERNO

Quella del Matteo triumphans era una condizione non soltanto dello spirito ma anche della realtà politica. Che proprio Renzi aveva diffuso e favorito - prima dell’esito delle elezioni regionali - sulla base di questa narrazione o di questa retorica dell’invincibilità: ci sono io, vinco io alle elezioni europee («Siamo il partito del 41%»), vinco io in Parlamento (dal Jobs Act alla legge elettorale e alla riforma della scuola). E vinco io nel partito. Quanto alla minoranza del Pd, «ce ne faremo una ragione». Questa sindrome della vittoria sempre, comunque, contro chiunque (e anche con chiunque, come dimostra la vicenda De Luca in Campania) ha creato il mito del Matteo triumphans e a causa di questa immagine iconica e di questo format un risultato di 5 a 2, invece che di 6 a 1, questa sorta di pareggio diventa nella percezione collettiva e anche in quella del titolare una vittoria mutilata. O una specie di flop, sul quale infieriscono gli avversari. Per effetto della sindrome della vittoria, per cui se non é squillante non vale come una piena vittoria, all’indomani delle elezioni Renzi se ne va in Afghanistan dai soldati italiani. Proprio per evitare di essere impastoiato nella discussioni sul pareggio largo che diventa comunicativamente un tracollo epocale, e per sottrarsi al gioco dell’ «ha vinto ma in fondo ha perso», del poteva andare meglio quindi é andata male, dell’eroe omerico che sembrava un Achille senza il debole del tallone e si scopre invece che il tallone ce l’ha pure Matteo e le acque dello Stige in cui era a sua volta stato metaforicamente immerso (uno Stige fatto d’Arno) non lo hanno reso completamente invulnerabile come si credeva che potesse essere. E lo pensavano gli altri ma anche lui. Dunque il premier-segretario é volato in Afghanistan, dicendo sono uomo delle istituzioni e non una figura dello spettacolo italiota delle percentuali e delle virgole su cui ognuno può adesso imbastire la propria propaganda. L’altrove di un teatro di guerra vera, combattuta su un fronte geopolitico davvero incandescente, contro il teatrino casereccio e come contraltare all’arena in cui gli altri tori della politica nazionale avrebbero voluto portare Renzi. Per rinfacciargli quell’aura d’invincibilità da lui stesso montata, e non rivelatasi questa volta all’altezza delle aspettative. Ma lo stesso Renzi, negli ultimi giorni per-elettorali, sembrava aver capito l’errore relativo a questa sindrome autoprodotta dell’invincibilitá e infatti si é precipitato in Liguria e in Veneto, proprio per evitare che nelle regioni in cui gareggiavano le sue candidate predilette - la Paita e la Moretti, certamente più renziane di De Luca o di Emiliano - accadessero le brutte sorprese, che si sono verificate, soprattutto a Genova e dintorni. E ora Renzi é consapevole che il risultato generale é un pareggio, ma questo è avvenuto con copiosa emorragia di voti per il Pd, e vedere il risultato veneto per lui é un dolore e forse rappresenta un motivo di autocritica il fatto di avere puntato in quelle due regioni cruciali su un tandem di donne dal piglio innovativo, che alla luce dei dati finali non ha funzionato. L’anti-sconfittismo, rispetto a una tradizione di batoste della sinistra sintetizzabile nello scioglilingua bersaniano post elezioni 2013: «Abbiamo vinto ma non abbiamo vinto» - ha funzionato come vero lievito in questi anni, per cui Matteo era diventato come una sorta di Nike di Samotracia del Pd. Adesso il trend sembra essere cambiato e il primo a scoprire la propria vulnerabilità è Renzi. Il quale prova a far passare il messaggio consolatorio, contenuto nella canzone di uno dei suoi autori prediletti, Francesco De Gregori: «Non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore».