Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 3/6/2015, 3 giugno 2015
NON È LA STRADA PER SCONFIGGERE I TERRORISTI
L’ottimismo non fa difetto agli americani ma la realtà in Siria e in Iraq è un po’ diversa da quella raccontata alla Conferenza di Parigi. Qualche tempo fa il Pentagono aveva diffuso la notizia che il Califfato nel 2014 aveva perso il 25% del territorio conquistato. Oggi l’Isis controlla 300mila chilometri quadrati, un’estensione di poco inferiore alla nostra, confina direttamente con la Turchia e nel Golfo libico della Sirte con l’Italia, due Paesi della Nato. In Iraq il Califfato si è impadronito di una vasta area che va da Mosul nel Nord a Ramadi, capitale della provincia di Al Anbar, ed ha infiltrato i commando suicidi nelle principali città irachene.
Per ammissione del premier Haider Al Abadi i jihadisti hanno sottratto all’esercito oltre 2.200 blindati americani Humwee che imbottiti di tritolo e kamikaze hanno sbaragliato le forze armate. Duecento sono state spedite da Raqqa a Mosul e Ramadi. Ma queste sono notizie che il Pentagono non ama diffondere. Così come appaiono nebulosi i risultati dei raid aerei, centellinati a confronto delle centinaia di Cruise lanciati per abbattere Gheddafi.
L’impressione è che l’eterogenea coalizione a guida americana non punti a distruggere lo Stato Islamico ma a prolungare un conflitto settario tra sciiti e sunniti dove non è stato ancora deciso chi deve vincere e se dovrà nascere un nuovo stato sunnita a cavallo tra Siria e Iraq. È per questa brutale ragione che non è ancora possibile definire una strategia credibile sui brandelli della Mesopotamia e sul destino di milioni di profughi.
In Siria lo Stato Islamico ha in mano il 50% del Paese, incluse le riserve di gas e petrolio, mentre il restante 20% è sotto l’influenza delle milizie di al-Qaeda e dei salafiti foraggiate da sauditi e dal Qatar. Il regime di Bashar Assad controlla un quarto del territorio, i porti e la frontiera con il Libano ma ha perso i valichi con Giordania, Turchia e Iraq. Dopo essersi ritirato da Palmira, il regime, sotto pressione come non mai, potrebbe abbandonare alla furia dell’Isis anche i villaggi cristiani per sollevare un’ondata di sdegno in Occidente: ipotesi avanzata da uno dei più importanti diplomatici internazionali.
I gruppi “moderati” sui quali vuole appoggiarsi l’Occidente per far fuori Assad e contrastare lo Stato Islamico sono come la mitologica Araba fenice di Metastasio: «Che vi sia ciascun lo dice, ove sia nessun lo sa». Turchia e Stati Uniti sono alleati da 50 anni, eppure Ankara ha fatto passare migliaia di jihadisti dal suo confine e sostenuto i gruppi radicali islamici con centinaia di camion di armamenti camuffati come aiuti umanitari.
In questi dati c’è tutto il fallimento della strategia contro l’Isis che ha un difetto di fondo: è basata sull’ipocrisia di Stati che partecipano a una sedicente coalizione dove ciascuno persegue interessi diversi, se non opposti.
Quella che stravolge il Medio Oriente, alle porte di casa nostra, non è soltanto una guerra confessionale tra sciiti e sunniti ma una lotta di potere senza quartiere per l’egemonia regionale tra Iran e Arabia Saudita in cui sono saltati patti storici e tutti diffidano degli Stati Uniti, tornata una potenza petrolifera che può fare a meno anche del Golfo. È da un anno che Washington e Ankara trattano per costituire un New Army siriano mentre gli americani vorrebbero la base di Incirlik per bombardare il Califfato: ma i turchi frenano fino a quando non sarà istituita una “no fly zone” che apra la strada a un protettorato turco su Aleppo e la zona curda. Forse se ne riparla dopo le elezioni di domenica in Turchia. Una cosa è certa: il Califfato dovrà durare ancora un po’ prima che inizi a una “vera” guerra sulle macerie di Siria e Iraq.