Fausto Narducci, SportWeek 23/5/2015, 23 maggio 2015
QUEL GIORNO DEI CINQUE RECORD IN 45 MINUTI
[Jesse Owens]
Ogni atleta, in fondo, ha il suo “giorno dei giorni”, il momento magico e irripetibile della gloria o delle imprese impossibili. Eppure di “giorno dei giorni” nella storia dello sport ce n’è uno solo, o meglio c’è secondo le narrazioni successive all’impresa compiuta da Jesse Owens ottant’anni fa perché allora nessuno si sognò di definire quei 45 minuti che cambiarono il mondo come Day of Days. Il marchio, forse rubato al racconto A day of days scritto da Henry James a metà Ottocento, comunque sia stato impresso, è in ogni caso arrivato intatto fino ai giorni nostri e certifica l’impresa compiuta il 25 maggio 1935 ad Ann Arbor, città di centomila abitanti del Michigan.
Al di là di tanti falsi storici (per esempio il rifiuto di Hitler di premiarlo sul podio olimpico di Berlino 1936), il campione nero che si sostituì a Joe Louis nell’iconografia popolare americana in realtà all’anagrafe non si chiamava neanche Jesse ma James Cleveland. Solo che quando i suoi genitori si trasferirono dal profondo Sud al Midwest, il decimo figlio di Henry ed Emma Owens al primo appello scolastico biascicò un J.C. che alla maestra della prima elementare suonò come Jesse. Un nome che il mite ragazzo dell’Alabama si rassegnò a considerare come suo e si portò dietro per tutta la sua vita da leggenda. Dunque Owens è diventato Jesse anche per noi che ogni dieci anni siamo qui a celebrare un anniversario che, nella storia dello sport, equivale all’Independence Day o alla Presa della Bastiglia. In soli 45 minuti (secondo una recente revisione dei 75 minuti divulgati inizialmente), il più grande talento dello sport del ventesimo secolo, a 21 anni già sposato e con un figlio, stabilì cinque record del mondo (quelli delle 220 yards valevano anche per la distanza metrica, leggermente più corta) e ne eguagliò un sesto. Evento in seguito neanche avvicinato da nessuno. Una giornata che possiamo descrivere in presa diretta come avrebbe fatto il Paolo Rosi che raccontò poi per la Rai il giorno dei giorni di un altro nero di America, l’8,90 di Bob Beamon a Città del Messico 1968.
ALBA DI SABATO 25 MAGGIO
Si alza un discreto vento ad Ann Arbor, nel cuore del Michigan, dove si sta per celebrare l’ultima giornata dei Big Ten Championships, cioè la sfida fra college per la supremazia universitaria nel Middle West in cui, spinti dalla tensione, gli atleti in genere toccano i limiti massimi della loro carriera. Fra questi c’è un ventunenne talento della Ohio University (i temibili Buckeyes), allenato dall’esperto Larry Snyder, che cinque giorni prima ha fatto la classica goliardata: si è messo a lottare con un collega cadendo per la rampa delle scale e ha la schiena a pezzi. Owens è così dolorante che, dopo averlo visto fare esercizi rilassanti nella hall dell’albergo, è lo stesso Snyder ad accompagnarlo in macchina allo stadio. Le cose però non vanno meglio nello spogliatoio: i compagni devono aiutarlo a togliersi i vestiti e a infilarlo in una vasca idromassaggi, dove rimane seduto per mezz’ora.
Il venerdì (24 maggio), in qualificazione, Jesse ha fatto il minimo indispensabile per qualificarsi in quattro gare (100 yards in 9”7, 220 yards in 21”4, 220 yards ostacoli in 24”9 e 7,65 nel lungo), ma la finale è un’altra cosa. Quando esce dalla vasca, non ha fatto progressi. Racconterà Owens: «Alcuni dei miei compagni dovettero aiutarmi per infilare la divisa di gara. Il mio allenatore mi strofinò a lungo un unguento sulla schiena e poi mi fece indossare una tuta pesantissima per tenermi al caldo. Così, quando andai in pista, al posto dell’abituale riscaldamento sull’intero anello, mi limitai a un po’ di stretching. Poi mi appoggiai con la schiena all’asta di una bandiera in fondo allo stadio e aspettai il mio turno».
ore 15:15 100 yards
Jesse infila i piedi nelle buchette scavate sul terreno del Ferry Field perché non solo non c’è ancora la pista in tartan ma mancavano anche i blocchi che velocizzano la partenza. Come racconterà anni dopo il capo cronometrista dello stadio, Phil Diamond, il rilevamento a mano, per non concedere vantaggi, prevede di schiacciare il pulsante del cronometro all’arrivo quando l’ultima parte della gamba ha tagliato il traguardo. «Facendo la buchetta avevo sentito dolori lancinanti alla schiena, quando però lo starter dà il via chissà come mi passa tutto», racconterà Owens, che chiude in 9”4 con 5 yards di margine su Robert Grieve (9”8). Le lancette dei tre cronometri ufficiali sono in realtà più vicine al 9”3 che al 9”4 e tre cronometri extra segnano 9”3, ma il severissimo giudice W.J. Monilaw arrotonda per eccesso, come d’uso. È record mondiale eguagliato. Anche se la regola del limite dei due metri di vento verrà introdotta dalla Iaaf solo per Berlino 1936, la brezza è entro la norma: +1,55 m/s.
15:25 SALTO IN LUNGO
È la gara in cui Owens la settimana prima ha superato per la prima volta i 25 piedi (7,62 m) e l’attesa è tale che, dopo i 100, il meeting viene interrotto per spostare la buca di atterraggio sotto le tribune, a beneficio del pubblico. Con preveggenza viene anche infilato (cosa che poi sarebbe stata illegale) un fazzoletto nella sabbia per indicare il record mondiale in vigore: 7,98 del giapponese Chuhei Nambu, stabilito il 27 ottobre 1931 a Tokyo.
Nonostante l’altezza (1,78), Owens si concede una rincorsa corta di 33 metri e, nel suo unico salto, plana a 8,13 (vento +1,5), record mondiale migliorato di 15 centimetri. Secondo è Willis Ward con 7,67. Racconterà Owens: «A bordo pedana c’era un giudice alto circa un metro e 80 e io ho cercato di saltare in alto quanto lui». L’ovazione degli astanti dura alcuni minuti e la gara di Jesse finisce qui. Il record resisterà 25 anni, fino all’8,21 di Ralph Boston del 1960, a Walnut.
15:45 220 YARDS IN RETTILINEO
Dopo il lungo, la schiena ricomincia a far male. «Ho pensato solo a vincere la gara successiva, non certo al record», dirà poi Jesse. Fatto sta che domina le 220 yards in rettilineo – riconosciute dalla Iaaf fino al 1951, quando rimasero solo le 220 yards in curva – in 20”3 (vento +0.8) davanti a Dooley, secondo con 20’’7. Il precedente di Metcalfe (20”6 nel 1933, a Budapest) è migliorato di tre decimi e il record, secondo le regole Iaaf, vale anche per i 200 metri che sono misurati in 1,17 centimetri in meno (quindi Owens ha corso di più!).16:00 220 YARDS OSTACOLI
Questa gara a ostacoli in rettilineo, riconosciuta dalla Iaaf fino al 1960, si corre con gli ostacoli bassi ed è il punto debole di Owens, che passa molto alto rispetto agli avversari. Con 22”6 (secondo Doherty con 23’’2) riesce a migliorare di quattro decimi il precedente primato di Paul Norman (23’’0) stabilito nel 1933 a Los Angeles, ma il differenziale con la gara piana è di 2”3 mentre gli specialisti perdono abitualmente solo un secondo. Due giudici lo cronometrano in 22”4 (+0,4), ma il terzo cronometrato, subentrato al capo-cronometrista Diamond che era distratto, ha preso un tempo di 22”6 e Diamond applica la regola del cronometraggio più alto.
DALLE 16:00 IN POI
Dopo il sesto record in 45 minuti, Owens ha ancora mal di schiena e viene aiutato per entrare nella doccia. L’esperto giornalista Jack Clowser, inviato da Cleveland, scriverà su Track & Filed News che i tempi di Owens in realtà erano stati migliori di quelli omologati: almeno 9”2 nelle 100 yards, 20’’2 nelle 220 yards e 22”4 nelle 220 yards ostacoli. Comunque sarà proprio lui ad accompagnare Owens in macchina a Cleveland per i festeggiamenti in famiglia. Owens dirà: «Io ho cercato semplicemente di fare il mio meglio. Non mi aspettavo nessun record: l’unica pressione era quella di essere l’uomo da battere in ogni gara per avversari più freschi di me e pronti a dare il meglio in questa sfida da cui dipendeva l’onore delle università. Il Big Ten fu il punto di partenza per arrivare alle quattro medaglie olimpiche di Berlino 1936, che erano il mio vero obiettivo».
CONCLUSIONI
Anche se volessimo accogliere la tesi del più accreditato biografo di Jesse, William J. Baker, secondo cui lo stesso Owens aveva confessato nel precoce post-agonismo a un intervistatore di aver disputato tutte le gare di Ann Arbor senza dolori, quel giorno dei giorni a distanza di 80 anni mantiene intatto il suo fascino. Owens sarebbe passato al professionismo un mese dopo i quattro storici ori di Berlino 1936 per morire il 31 marzo 1980, a 66 anni, in pace con se stesso. Aveva “semplicemente” cambiato la storia dell’atletica.