Gloria Mattioni, GQ 6/2015, 3 giugno 2015
A MALIBU, ASPETTANDO LA GRANDE ONDA
Surfrider Beach a Malibu, California. Cinque e mezza del mattino. Il sole è ancora un miraggio. Un punto più luminoso e baluginante a est, avvolto nella soffice coperta argentata creata dall’inversione termica: quella foschia tipica delle città sulla costa, che dirada soltanto nelle ore seguenti della mattina. Il colore dell’oceano è ancora cupo. L’alta marea della notte comincia a ritirarsi esponendo lingue di sabbia bagnata che più tardi scotterà sotto i piedi. Sullo sfondo cominciano a spuntare sagome silenziose.
Sono appena scesi dai pick-up da carpentiere, dalle Camaro gialle vintage, dalle Mercedes Benz attrezzate con il portapacchi sul tetto, dalle Jeep, dagli Hummer o dalle Saab con i sedili riscaldati (preziosi dopo ore a rabbrividire, a cavalcioni delle tavole, in attesa dell’onda migliore). Sottobraccio hanno le long board di fibra di vetro con la parte superiore di morbida schiuma oppure le “pistole” di soli sei piedi, i six-footer da duri, che facilitano le acrobazie e sono perfette per invertire la rotta nei tubi o per passare da un’onda all’altra quando queste arrivano in serie di quattro o di cinque con la bassa marea. Già nel parcheggio hanno infilato le mute di neoprene nero che li fanno assomigliare a foche: impossibile farne a meno tra le correnti del Pacifico. Tra un paio d’ore, faranno la fila davanti alle docce all’aperto per lavare la salsedine, prima di vestirsi con le divise da lavoro: questi surfer sono avvocati, attori, idraulici, musicisti, imbianchini, scrittori, impresari edili, registi, falegnami, baristi. In acqua e sulla spiaggia, il loro status sociale non fa differenza.
Pagaiano verso il largo e si allineano in fila, rispettosi del codice non scritto del surf: rispettare i turni, mai rubare un’onda, il passo a due è consentito solo se preceduto da un mutuo accordo stabilito con un’occhiata o un grido («Tua. Ti seguo a distanza»). Cosa bisogna dire per far parte di questo boys club? “Let’s go ride some waves”, andiamo a cavalcare un po’ di onde. Perché il surf non è solo uno sport e neppure una semplice passione. È una fissazione, un virus buono che contagia generazioni di ragazzi. Una volta che hai preso l’abitudine, non riesci più a liberartene, neanche se lo volessi (ma nessuno lo vuole mai).
Così in acqua volteggiano surfisti di tutte le età: ragazzini giovanissimi con gli zaini zeppi di libri di scuola lasciati sull’asciugamano steso sulla spiaggia, così come pensionati col volto percorso da rughe che sembrano solchi, scavati dal sole, dal sale e dal vento.
Sono “la pattuglia dell’alba”, come quella che dà il titolo a un romanzo di Don Winslow (Einaudi). Ma qui non siamo a San Diego. E questa distesa di sabbia non è Pacific Beach. È la mitica spiaggia di Malibu dove vennero girate le scene losangeline di Un mercoledì da leoni di John Milius e Dennis Aaberg: dal 1978 rimane la Bibbia per legioni di novizi della tavola, e ci dispiace per i fan di Point Break di Kathryn Bigelow. Un bel film, certo, ma la bromance omoerotica tra i due protagonisti e la trama da thriller tolgono il focus da dove invece ci piace che stia: la madre oceano e il cameratismo, quella speciale fratellanza virile che crea legami indissolubili tra surfisti.
Qui, proprio qui, con gli occhi puntati al reef break (il punto esatto in cui l’onda si “rompe”, arrivando verso terra) è dove il mitico Bear – il personaggio che alla domanda «Tu surfi?», rispondeva in toni diminutivi «No, io sono solo l’uomo delle pulizie» – raccontava: «Di quei vecchi tempi ricordo un vento che soffiava attraverso i canyon. Era un vento caldo chiamato Santana e portava l’odore... di posti caldi. Soffiava più forte sopra al Point prima dell’alba...». Bear era l’artigiano che non solo costruiva le tavole per Matt, Jack e Leroy, ma rimetteva gli altri in piedi e in riga dopo epiche sbronze o altre disavventure esistenziali: l’antieroe che si tiene dietro le quinte, figura cruciale nel film e archetipo nel mondo del surf. Da lui (nel personaggio si sarebbero poi riconosciuti celebri costruttori di tavole: Dale Velzy, Hap Jacobs e Bob Bolen) i surfisti vanno per ottenere consigli sulla paraffina da spalmare sulla tavola ma anche per una pacca sulla spalla o per due chiacchiere.
Bear ha lasciato la sua eredità nelle mani di vari seguaci dislocati nei diversi surf shop che costellano la Pacific Highway One, sulle curve di Malibu. Nessuno, però, alla sua altezza. La competizione sarebbe, in effetti, impossibile.
È un mondo a parte, che vive sulla cresta dell’onda. Ma alla fin fine, qual è il fascino dell’onda? Di cosa si tratta? Lasciamo rispondere Don Winslow, scrittore prodigioso e surfer modesto, per sua stessa ammissione, che alla “pattuglia dell’alba’’ preferisce “l’ora dei gentiluomini”, quelli che si svegliano più tardi e che sono più avanti con gli anni, troppi per competere con i ragazzini: «In fisica, è definita come un fenomeno di propagazione dell’energia. Secondo il dizionario, è “un disturbo che, tramite un mezzo, si sposta da un luogo a un altro”. Un disturbo. Senza dubbio. Qualcosa viene disturbato. Vale a dire, una cosa ne colpisce un’altra e provoca una vibrazione... La vibrazione è energia. Viene trasportata, per mezzo di un’onda, da un punto a un altro...».
Continua: «Così, quando si cavalca un’onda, non è che si sta cavalcando l’acqua. L’acqua è soltanto il mezzo: quello che si sta cavalcando è l’energia. Figo, eh? Scroccare un passaggio all’energia... Per farla semplice, le onde si dividono in due categorie. In gran parte, si tratta di onde di superficie. Sono causate dalle fasi lunari e dal vento, ovvero i creatori del disturbo. E queste sono le onde in formato standard, niente di che, insomma, buone per tutti i giorni. Arrivano puntuali, timbrano il cartellino e vantano dimensioni dalla piccola alla media, con qualche punta più estrema. Le onde di superficie, se non l’avete capito, sono quelle che danno il nome al surf, perché anche i meno esperti del ramo capiscono che i surfisti si muovono sulla superficie dell’acqua. Insomma, i surfisti superficiano...».
«L’altra tipologia di onde è la cosiddetta sotterranea, che inizia appunto sotto il pelo dell’acqua. Facendo un confronto con il pugilato, possiamo dire che le onde di superficie assomigliano a dei pesi medi che danzano sul ring e mollano di tanto in tanto un jab; quelle sotterranee sono invece i pesi massimi, che arrivano sbatacchiando i piedi e rifilano cazzotti da ko dritti dall’oceano. Un’onda del genere è l’autentica superstar, il vero e proprio pezzo di merda, quella che ti sgraffigna i soldi del pranzo, ti frega la ragazza e già che c’è ti toglie anche le scarpe...» (questa lunga citazione è tratta appunto da La pattuglia dell’alba di Winslow).
L’onda tosta. Quella che fa “kaboom”. La Grande Onda per cui batte il cuore dei ragazzi fotografati in queste pagine. La aspettano ogni giorno. Rigorosamente in fila. Allineati. Tutti in attesa della grande mareggiata, dell’onda alta anche sei metri che entrerà nella storia, che farà scorrere adrenalina pura nelle vene. “Dio, ti prego, dammi la Grande Onda”: questo è il mantra d’ogni vero surfista.