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 2015  giugno 02 Martedì calendario

LAVORO SULLE MINIATURE STORIE SENZA RIMPIANTI

[Intervista a Francesca Marciano] –
Francesca Marciano ha cambiato molti mestieri e un’infinità di indirizzi. È stata attrice e regista. Ha vissuto a lungo in Africa e in America. Alle sceneggiature inventate per Salvatores, Verdone, Bertolucci e Valeria Golino ha affiancato da anni i suoi libri. Romanzi tradotti in più di 15 paesi. Volumi di racconti. L’ultimo, The other language, finalista allo Story Prize, sorretto negli Stati Uniti da Pantheon e ora ripubblicato da Bompiani con titolo evocativo Isola grande, isola piccola, ne sventola un ciuffo in cui tra vacanze, amori, ricordi e rette divergenti, il profumo delle avventure copre l’odore del rimpianto: “Ma in verità nelle mie storie non c’è spazio per la nostalgia. Isola grande, isola piccola parla delle cose che cambiano, delle trasformazioni che avvengono, delle rinascite improvvise e dei percorsi individuali che cambiano radicalmente. I miei protagonisti ritrovano il loro passato e accettano l’inevitabile mutamento senza traccia di rimpianto. Capiscono cose che non avevano capito prima”.
Lei cosa ha capito scrivendolo?
Che quando ti siedi nell’ufficio di un editore e dici: “Ho messo insieme alcuni racconti” il sorriso del tuo interlocutore muore. Il racconto è visto come la peste.
Il premio a cui è stata candidata, lo Story Prize, ha avuto negli ultimi anni finalisti come Don DeLillo e George Saunders.
In America la tradizioni delle short stories è radicata. Più che in Italia dove, come è noto, tutto ciò che si pensa venda poco è raso al suolo e dimenticato in fretta. Dal racconto sono passate e si sono imposte Jhumpa Lahiri e Alice Munro.
Michiko Kakutani del New York Times, in genere feroce, ha elogiato il suo stile paragonandolo proprio a quello di Munro.
Munro l’ho letta, certo. Come ho letto tantissimi altri racconti perché nella sua circolarità il racconto ti costringe a cambiare scrittura. A studiare. La vincitrice dello Story Prize di quest’anno, Elizabeth McCracken, sostiene che il romanzo sia una febbriciattola e il racconto un pugno nell’occhio. Non so se sia del tutto vero, ma so che il racconto ti obbliga a lavorare su una miniatura. Individui un piccola cosa e su quella edifichi tutto il resto. E a volte è più difficile lavorare su una miniatura che su un quadro.
Qualcuno ha acutamente notato che nessuno dei personaggi di Isola grande, Isola piccola riesca a fermarsi in un luogo.
L’ha detto Chiara Valerio e ha ragione. Camere d’albergo, cabine d’aereo, barche, macchine. Non sono mai a casa. Sono persone in movimento. Poco rassicurate dall’ambiente familiare, ma vigili e incuriosite da quel che si muove oltre la porta.
Ha viaggiato e cambiato d’abito senza mai fermarsi anche lei. Iniziò come attrice in Pasqualino Settebellezze di Lina Wertmüller. Giovanni Grazzini avvertì i lettori del Corriere: “Tenete d’occhio quel bel faccino”.
Sono cresciuta in una famiglia borghese. Mio nonno, Giovanni Battista Angioletti, aveva fondato una rivista, L’approdo letterario, ed era stato direttore dell’istituto di cultura italiana a Parigi. Vivevo a Roma con i miei e mi ritrovai a fare l’attrice per sbaglio. In Pasqualino avevo una parte minuscola, ma feci anche La casa dalle finestre che ridono con Pupi Avati. Un piccolo cult dopo il quale piovvero altre offerte. Altri film.
Perché non li interpretò?
Perché fuggii. All’epoca, quasi per contratto, dovevi spogliarti e mostrare le tette. L’idea non mi entusiasmava. Mi sentivo una marionetta nelle mani di qualcun altro e così presi il primo volo per New York. Non conoscevo nessuno. Feci la cameriera per pagarmi un corso di regia tenuto da Lee Strasberg, mi arrangiai e poi con Stefania Casini mi misi al lavoro su un piccolo film.
Il suo unico film da regista nel 1983.
Il titolo, Lontano da dove, era diretta filiazione di un’antica barzelletta Yiddish. La storia raccontava con ironia le vicende di un gruppo di giovani italiani a New York. Gente che guardava a Roma con nostalgia e mentre camminava nella metropoli pensava con struggimento al cornetto. Bertolucci, presidente della giuria veneziana, parlò con Antonioni e seppe da Michelangelo che il film era stato selezionato.
Antonioni era sorpreso?
Disse una cosa secca e sincera: “Ci mancava solo questa”. Eravamo considerate due velleitarie. Due dilettanti. Due belle ragazze sceme e raccomandate. Le reazioni mi turbarono. In America non c’era il politically correct, ma quasi.
Antonioni aveva torto?
Non del tutto. Manovrare la complessa macchina di un film non era il mio campo. Così mi misi a scrivere per il cinema.
Lavorò a Turné di Salvatores.
Il film nacque in un appartamento di Via della Lungara. Virzì, allora sconosciuto, viveva al piano di sotto. Venne a chiedere una cipolla e diventammo amici. All’epoca, Paolo ospitava Bentivoglio a casa sua. Ci mettemmo a lavorare insieme. Tirammo giù un soggetto e lo consegnammo a Salvatores. Ho un bellissimo ricordo di quel periodo.
Dopo Turné scrisse Maledetto il giorno che t’ho incontrato.
Verdone mi cercò. Guardava con timore al giovane cinema d’autore italiano e cercava un’idea più commerciale. Ci divertimmo molto. Da quel film a Io, loro e Lara, abbiamo collaborato spesso.
A metà degli anni 90 lei si trasferì in Africa.
Guadagnavo bene, ma all’improvviso mi misi in testa di cambiare vita. Partii con un biglietto di sola andata. Una sensazione d’estasi. Carol Levi, la mia agente di allora, era costernata: “Non capirò mai perché stai abbandonando una fortuna”. Volevo fare le cose che fanno gli uomini. Iniziai a girare documentari tra Benin, Zambia, Somalia e Sudan per venderli alla Rai. Piccoli aerei atterrati nel nulla, baracche in cui di notte i topi divoravano i vestiti, guerriglieri in una Mogadiscio bombardata. Cose da pazzi. Avevo affittato una casa tra Kenya e Tanzania. Un posto isolato. Una notte in cui ero lontana accadde una tragedia. Arrivò un gruppo di banditi per rapinare gli ospiti e uno dei miei più cari amici venne ucciso. Resistetti cocciutamente altri due anni e poi, dopo un’altra intrusione violenta, mi arresi all’evidenza.
Il suo primo libro l’ha scritto in Africa.
E molti dei miei incontri di allora continuano ad accompagnarmi. Come accade ai miei personaggi, le storie che racconto appartengono al mio peregrinare. È inevitabile. E in fondo consolante.
Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 2/6/2015