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 2015  giugno 01 Lunedì calendario

USA, IL CONTO SALATO DEI COWBOY DEL FRACKING

In sei mesi sono già stati bruciati centinaia di miliardi di dollari, ma la guerra per garantirsi la fetta più grossa del mercato più ricco del mondo, quello del petrolio, “è appena cominciata”, assicura l’osservatore più autorevole, la Iea, il braccio energia dell’Ocse. Se a novembre, decidendo di continuare a pompare petrolio senza badare al prezzo, i sauditi pensavano di mettere in ginocchio i loro avversari diretti – i frackers, gli spaccaroccia, i cowboyamericani dello shale oil – ci sono riusciti, certifica la Iea: dopo mesi in cui il numero dei pozzi attivi continuava a diminuire, ad aprile la produzione nei bacini americani del petrolio non convenzionale è “collassata”. Ma i cowboy non si sentono fuori gioco. Inoltre, rileva la Iea, sono scesi in campo altri contendenti, come russi e brasiliani, con le spalle ben coperte dai rispettivi governi. Prima che una guerra, insomma, è una mischia tutti contro tutti in cui ognuno pompa più petrolio che può e chi si ferma spera di tornare presto ad aprire i rubinetti. Nel polverone capita che la speculazione riesca in controtendenza a far salire il prezzo. Ma il mercato resta fragile e c’è chi comincia a sospettare che, nel cuore del nuovo scenario del petrolio, aperto dalle rivoluzionarie tecniche di trivellazione del fracking, si nasconda una grande bolla, che potrebbe esplodere da un momento all’altro. Le ultime settimane sono un’efficace illustrazione del gioco di specchi e aspettative che domina il mercato del petrolio. Il punto chiave è che, alla fine, il crollo dei prezzi ha finito per spezzare la schiena ai fracker: dopo aver esaurito tutti i possibili sistemi per tagliare i costi, ad aprile i cowboy dello shale hanno dovuto accettare di ridurre la produzione, mettendo fine ad una crescita ininterrotta da anni. Nelle previsioni, la produzione americana continuerà a scendere almeno fino all’inverno. È un taglio limitato, una frazione minuscola dell’enorme aumento messo a segno negli ultimi anni. Ma era il segnale che i mercati aspettavano. La resa dei fracker doveva significare che finalmente qualcuno riduce la produzione e dunque l’eccesso di offerta sul mercato, consentendo ai prezzi di risalire. Come è avvenuto: la quotazione del greggio, crollata quasi a 40 dollari al barile nell’inverno scorso, è risalita a 60 negli Usa, 67 dollari in Europa. Solo che è un miraggio: non è vero che la frenata dei fracker ha ridato respiro al mercato. Come avevano annunciato all’inizio delle ostilità, quando avevano chiarito che l’obiettivo era la conquista di quote di mercato, i sauditi hanno schiacciato l’acceleratore delle pompe, estraendo quote record di greggio, per saturare le commesse inevase dagli americani. Ma non solo i sauditi, anche gli emiri del Golfo. Anche l’Iraq e l’Iran sono tornati a quote record di produzione. E, dopo una periodo di pausa, sono tornati in forza sul mercato anche i russi e i brasiliani. Risultato? Il prezzo sale, ma in realtà il mercato è inondato di petrolio esattamente come prima. Insomma, dicono gli esperti, il rialzo è destinato a durare poco. Perché il miraggio affascina anche i fracker. Se il barile americano torna sopra quota 65 (negli Usa, l’export di greggio è tuttora vietato), molti possono pensare di tornare in produzione in nome del principio-base dell’industria del petrolio, per cui, almeno entro certi limiti, è meglio vendere un barile, soprattutto se si hanno debiti, anche a prezzi stracciati, piuttosto che tenerselo sottoterra. Ma, se i fracker tornano in massa, il mercato sarà non inondato, ma annegato nel petrolio, con un inevitabile collasso dei prezzi. Quello che i contendenti non possono condizionare è il calo della domanda di greggio e, man mano che si va avanti, questo sarà l’elemento sempre più importante e il motivo per cui la guerra per le quote di un mercato che si restringe diventerà sempre più cruenta. Nel 2015 e nel 2016, dice Goldman Sachs, il mondo, anche con i fracker meno pimpanti, produrrà 95,1 milioni di barili di greggio al giorno. Ma ne consumerà solo 93,9 milioni. Negli Usa, la domanda – grazie ad auto più efficienti e un uso meno ossessivo della macchina – resterà inferiore a quella del 2008. In Cina crescerà solo del 3,1%. Nel 2010, in piena crisi mondiale, salì dell’11%. A livello globale, prevede il ministero dell’Energia americano, la richiesta di petrolio salirà della metà, rispetto al 2010, che pure era tempo di vacche magre. “Un tasso così lento – sottolineano alla Shell – non basta a colmare il gap con la crescita dell’offerta”. Ecco perché i tempi del barile alle stelle sembrano finiti. Un documento interno dell’Opec (poi smentito) prevede che, anche fra dieci anni, il greggio non spunti più di 76 dollari a barile e potrebbe rivelarsi una previsione ottimistica: molti esperti prevedono che si assesti intorno ai 60 dollari. Cosa succederà, in questo caso, dei plotoni di cowboy dello shale che, negli anni dei prezzi record, hanno conquistato il mercato? Sul prezzo del barile di cui i fracker hanno bisogno per coprire i costi girano cifre di ogni tipo. Molti, nel mondo del petrolio, sottolineano la straordinaria capacità di innovazione tecnologica e di recuperi di efficienza messa in mostra dai fracker. Ma l’economia di un pozzo non convenzionale è differente da quella di un pozzo tradizionale. Il costo importante non è quello del greggio di un pozzo già aperto, ma quello della trivellazione di un pozzo nuovo. Data la tecnica sofisticata (frattura delle rocce e trivellazione orizzontale), l’investimento è assai maggiore di quello necessario per un normale pozzo verticale. Secondo Schlumberger, uno dei maggiori produttori di macchinari per l’industria petrolifera, l’investimento può arrivare agli 80 dollari a barile, il doppio di pozzi pure complicati, come quelli in pieno oceano. Il problema è cruciale, perché i pozzi non convenzionali, rispetto a quelli tradizionali, si esauriscono non in decenni, ma nel giro di cinque-sei anni e quindi i fracker devono continuamente trivellare nuovi, costosi, pozzi. L’industria dello shale ha le spalle abbastanza larghe per reggere questi bilanci aziendali, in uno scenario di prezzi calanti? Secondo David Einhorn, il boss di un hedge fund, Greenlight Capital, no. E non le aveva neanche con il greggio a 100 dollari: è una bolla destinata a scoppiare. Quando Einhorn che, di mestiere, gestisce patrimoni, parla di bolle è meglio starlo a sentire: fu lui, con un anno di anticipo, a prevedere che Lehman Brothers sarebbe saltata. Ora sostiene che le maggiori aziende di fracking si reggono solo grazie ai crediti che Wall Street convoglia per attirare capitali in Borsa. Secondo i suoi calcoli, i 16 “top frackers” hanno, finora, speso 80 miliardi di dollari in più di quanto abbiano mai incassato. Neanche il petrolio a 100 dollari è stato sufficiente a portare profitti: hanno bruciato, sostiene, 20 miliardi di dollari anche con il greggiorecord. Adesso hanno anche smesso di crescere e il peso dei debiti si fa sentire. Il gran parlare di rilancio del fracking grazie ai prezzi che risalgono sarebbe, dunque, soprattutto un modo per evitare un crac in Borsa. “Ma un’azienda che brucia soldi e non cresce non vale nulla”, sentenzia Einhorn. Se vede giusto anche questa volta, il botto è vicino.
Maurizio Ricci, Affari&Finanza – la Repubblica 1/6/2015