Eugenio Occorsio, Affari&Finanza – la Repubblica 1/6/2015, 1 giugno 2015
MAURICE LEVY E I TRE QUOZIENTI “COSÌ CREIAMO LA PUBBLICITÀ PERFETTA”
Milano
A un certo punto dell’intervista, Maurice Levy, numero uno della Publicis, colosso mondiale della pubblicità con 7,2 miliardi di euro di fatturato e un bouquet di marchi da Leo Burnett a Saatchi & Saatchi, prende un foglietto e scrive qualcosa di simile a un’ “espressione” come quelle che disegnavamo sulla lavagna a scuola. «Noi la chiamiamo alchimia». E scrive: (Iq+Eq+Tq+Bq)=Cq. «Allora, glieli decritto. Il primo è il quoziente di intelligenza, sia il nostro che quello del pubblico. Dobbiamo valorizzarli entrambi per formulare e per captare campagne vincenti. Il secondo è il quoziente emotivo: una campagna deve suscitare un’emozione perché sennò naufraga nel mare magnumdei messaggi dai quali siamo bombardati ogni giorno. E fin qui diciamo che siamo nel “noto”. Con il terzo simbolo entriamo nella vera sfida: il Technology quotient. Quanto più una campagna è predisposta per entrare nell’universo digitale, fa ricorso a “stratagemmi” tipo effetti speciali o meta-messaggi, tanto più è votata al successo. Il quarto simbolo è il più difficile di tutti: Bq vuol dire “bloody quick”, maledettamente rapido. Prima vedevamo il cliente ogni sei mesi, magari ogni anno, e facevamo il punto sull’andamento della campagna, sui risultati, sulle possibili variazioni da apportare alla campagna. Adesso tutto questo si fa in corsa, nel giro di uno-due giorni. Non c’è più tempo per fare test. La verifica del successo, della rispondenza, del grado di coinvolgimento del pubblico viene effettuata istantaneamente, e subito dopo facciamo il punto. Abbiamo nel nostro gruppo delle società apposite per questo». E il risultato finale dell’alchimia, il Cq? «Beh, quello è la sintesi di tutto, il momento in cui trionfa la nostra expertise. Significa “Creativity quotient”. E’ il risultato delle somme precedenti che affidiamo ai nostri madmen ( dice così, in inglese e non in francese, secondo il codice non scritto del mondo della pubblicità che indica i creativi, ndr). Sta a loro la parte decisiva: ragazzi, create una campagna che risponda a quest’alchimia. Loro sono bravissimi e ce la fanno sempre, ma è durissima. Affascinante ma durissima». Levy nel gruppo Publicis - uno dei Big Three del settore che si batte spalla a spalla con la Wpp e l’Omnicom - ci è praticamente nato. Fin dall’inizio ha scelto la porta giusta: nato nel 1942 a Oujda, allora protettorato francese in Marocco come Casablanca, dopo gli studi a Parigi e l’università in America, New Jersey University, è stato assunto nel 1971 dal gruppo come responsabile dell’allora nascente area informatica. Per prima cosa attuò una politica di “data security”, ovvero creò un backup magnetico di tutte le operazioni in corso, tutte le campagne, qualsiasi cosa che servisse per l’attività. Fu provvidenziale: quando un gigantesco incendio devastò la sede della Publicis sugli Champs Elisées, grazie a quei nastri nulla andò perduto. Fu possibile riprendere il lavoro dopo pochi giorni. E Levy si era assicurato la gratitudine eterna dell’anziano fondatore (nel 1926) e allora ancora presidente Marcel Bleustein-Blanchet, che lo nominò sul campo erede designato. Era la fine degli anni ’70. Quando il patriarca si ritirò nel 1987, la figlia Elizabeth Banditer, che detiene tuttora la maggioranza delle azioni (il gruppo è quotato in Borsa a Parigi), mantenne la parola e lo nominò Pdg (Presidentdirecteur general). Insomma, numero uno. In tutti questi anni al vertice, Levy ha avuto il privilegio di assistere in poltronissima a quella che chiama «la trasformazione rivoluzionaria» del mondo della pubblicità. «Intendiamoci: il vecchio advertising non si è estinto. Noi lo chiamiamo “analogico”, dai giornali alla tv, e conta ancora per il 50% del nostro business. Ma non posso non dire che è l’altra metà, il “digitale” che cresce prepotentemente». Scusi, una domanda diciamo personale: che ne sarà della pubblicità sui giornali, quelli cartacei? «Sopravviverà, non vi preoccupate. Certo, il declino continua ma ora ha rallentato il ritmo. E i giornali di riferimento sono rimasti quelli che hanno affiancato all’edizione cartacea una solida presenza sulle piattaforme digitali». C’è un altro algoritmo che Levy tiene a spiegarci sotto le volte maestose di Palazzo Parigi, l’albergone di stralusso appena inaugurato in corso di Porta Nuova: «Abbiamo una sigla: Poem. C’è racchiusa la nostra filosofia. Niente di poetico, le spiego anche stavolta cosa si cela dietro l’acronimo. Lettera per lettera. Paid: l’80% della nostra attività, digitale o analogica che sia, è costituita dalle “normali” campagne pagate dal cliente che poi vengono veicolate attraverso le più diverse piattaforme. Owned, cioè proprietari: è il nostro ramo Internet, creiamo i siti per i clienti e li rendiamo il più attraenti, gradevoli, tecnologicamente avanzati possibile. Earned, guadagnati: consiste nel creare video sorprendenti, curiosi, simpatici da immettere in rete. Contengono messaggi pubblicitari espliciti o anche di quelli che un tempo si chiamavano subliminali, la sfida è di renderli “virali”. La quarta lettera significa Mediae ancora una volta sintetizza tutta la nostra fatica». In quel termine, Media, si cela la realtà «completamente cambiata »: per varietà di bersagli, mezzi, criteri per arrivare al pubblico. «Le faccio l’esempio dell’American Express. Per essa, mettiamo nelle varie reti tremila diversi messaggi ogni anno. Quasi dieci al giorno, e cambiano continuamente. C’è il pubblico che vuole la carta di credito per lavoro, quello per le vacanze, e poi le aziende, le convenzioni, e ci sono i messaggi per i social network, i siti, quelli per le radio, le tv, Youtube, i giornali. I nostri team li verificano e li ottimizzano senza sosta». È possibile grazie alla tecnologia? «Certo. Nella nostra sede c’è quella che chiamiamo “redazione”: uno staff di cui fanno parte matematici, scienziati, psicologi, statistici, informatici. Studiano su una serie di maxischermi le varianti delle campagne. Intanto compulsano i dati che affluiscono in gran quantità e valutano la rispondenza dei messaggi, successo, visibilità, sempre per ottimizzarne il risultato. Abbiamo una società apposita che si chiama Performix: come vede siamo ben più di un’agenzia di pubblicità». L’ennesimo challenge in cui è impegnato il gruppo condotto da Levy, racconta il capo, è l’utilizzo e la valorizzazione a fini pubblicitari dei siti più scrutati del pianeta, a partire da Google. «Già, come lo definirebbe lei Google? Un motore di ricerca, un media, un portale di riferimento? Io lo chiamo “laboratorio del futuro”. Cerchiamo in tutti i modi di valorizzarne l’immensa visibilità a favore dei nostri clienti. Lontani sono i tempi in cui bastava piazzarci un banner o un sito sponsorizzato. Oggi la rincorsa è a piazzarsi in testa ai siti “normali”, e così i nostri matematici hanno riprodotto gli algoritmi usati dal motore per “spiazzarlo” e far salire i nostri siti. Questo, attenzione, non è fatto automaticamente o dai robot, l’intelligenza umana, a livello di PhD, è insostituibile». Levy, 73 anni, terzo uomo più ricco di Francia dopo Arnault e Pinault, spilletta della Legion d’Onore ben in vista all’occhiello, ha già fatto sapere che si ritirerà nel 2017 ma ha tutta l’aria di divertirsi ancora un mondo. «Ormai nei nostri laboratori la corsa alle invenzioni ci ha preso la mano», sorride. «Al festival di Cannes la settimana scorsa abbiamo presentato una maschera della realtà virtuale che abbiamo creato per Dior: permette di guardare i filmati delle sfilate come se si fosse lì, con una visione a 360 gradi, e ti sembra quasi di poter toccare le modelle». E qualcosa di meno pruriginoso? «Beh, potrei citarle i braccialetti dell’amore». Prego? «Sa quei braccialetti che ormai tanti uomini portano? Li abbiamo equipaggiati con un chip che risponde a quelli che porta la tua fidanzata: così si sentono i battiti del suo cuore». Scusi, qual è la valenza commerciale? «Nessuna. Diciamo che per noi sono sfide tecnologiche. Però, chissà, magari un domani....».
Eugenio Occorsio, Affari&Finanza – la Repubblica 1/6/2015