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 2015  giugno 02 Martedì calendario

EMI DE SICA: “APRO L’ARCHIVIO DI PAPÀ ORA CHE L’ITALIA LO STA RISCOPRENDO”

Un quartiere borghese rimasto fermo al tempo in cui questa connotazione aveva ancora significato. Un palazzo che segue le stesse tracce. Apre la porta di un appartamento congelato nel suo passato glorioso Emi De Sica, la figlia di Vittorio che si muove tra quelle stanze come un tempo fece suo padre. È simpatica, sorride e ha l’identico sorriso di Vittorio: «Più invecchio più sono come lui. Peccato che alla mia età non c’era già più».
Morì giovane, a 74 anni, il grande regista del Neorealismo (ma non solo), celebrato in mostra al Museo del cinema di Torino. Emi sarà lì, forte delle foto del suo archivio personale messe a disposizione di Alberto Barbera, che cura l’esposizione.
Memoria in scatola
«Fu mia madre a metterle da parte, una raccolta d’immagini enorme ma molto disordinata. Fu poi mio marito Sergio Nicolai a ritrovarle e a catalogarle. Gli piangeva il cuore a vederle così. Ci mise anni». Un altarino di innumerevoli fotografie alla memoria del padre campeggia sopra il pianoforte a mezza coda, uno Steinway che Vittorio amava suonare e sul quale puniva la figlia: «Era un pezzo di pane, l’unico castigo era mettermi, con lui vicino, seduta sul piano perché soffrivo di vertigini. Ma dovevo averla fatta proprio grossa. Adoravo ascoltarlo: pur non conoscendo le note, suonava in modo fantastico».
Su un cassettone antico, la foto di Emi giovinetta con il padre alla consegna del secondo Oscar del 1949 per Ladri di biciclette, a fianco il medesimo, originale, pesantissimo: «La statuetta di Sciuscià la conserva Christian. Prima l’aveva Manuel che purtroppo ci ha lasciati». Trasuda amore anche per quella seconda famiglia che in fondo poco le ha tolto e forse le ha più dato, Emi figlia unica, due fratelli che l’hanno amata. «Gli aneddoti sulle due cene di Natale, sul Capodanno in differita per non scontentare noi e loro. Mia madre ha sempre saputo, avevano una grande confidenza e papà non sapeva mentire. Ha sempre avuto tante amanti, gli cadevano nel letto».
Eppure quando Giuditta Rissone, una famiglia di artisti astigiana, piemontese nel midollo, lo vide per la prima volta, lo prese per un vecchio. Si sentiva brutto, con quel naso, perciò faceva i caratteri a teatro e si truccava da anziano, «ma quando mia madre lo vide struccato se ne innamorò di colpo. Si amarono da pazzi e lavorarono tanto insieme, in compagnia con Sergio Tofano. Poi Uomini che mascalzoni e Il conte Max. Iniziò così la sua fortuna».
Complicato convivere con tanto nome? «Non lo è stato quando era in vita, mai, lui teneva ben separati i piani. Ora si ricomincia a parlare di lui, a occuparsi di lui. Dalla mostra organizzata dalla Cineteca di Bologna qui a Roma, all’Ara Pacis, in poi. Ora la sua assenza la sento forte». Ricorda gli anni del Neorealismo, quando correva sul set in bicicletta perché soldi non ce ne erano, dall’alba a notte fonda. «Però quando entrava in casa tornava il padre borghese che mi controllava i compiti. Mia madre aveva smesso di lavorare per stare con me e ne era felice».
Le liti con Zavattini
Ecco il divano dove con Zavattini, che abitava sullo stesso pianerottolo, scrissero Ladri di biciclette, «si sentivano gli strilli a freddo, liti furibonde. Si volevano un bene da pazzi». Ma politicamente era impegnato? «Mio padre si considerava un socialista ispirato a Gesù perché era molto cristiano». E come conciliava la religione con le due famiglie e le mille amanti? «Eccesso d’amore».
E forse per eccesso d’amore, tutto ricorda solo lui: «La casa è come la fece papà, tranne i quadri. Li ho venduti tanti anni fa per paura dei ladri. De Pisis, cinque Morandi di cui uno fu dipinto prendendo spunto dalle rose che gli aveva regalato papà e a sua volta lui gli fece dono dell’opera. E ancora Kandinskij, Dalí. Se li avessi venduti oggi ci avrei comprato Manhattan».
Ultima curiosità? «È ora di pranzo e papà non sapeva cucinare. Però in cucina pontificava: “I broccoletti vanno saltati a crudo”. Non credo di averli mai preparati diversamente».
Michela Tamburrino, La Stampa 2/6/2015