Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  giugno 02 Martedì calendario

MARELLA AGNELLI “SPIANDO NOSTRO PADRE SCOPRIMMO IL GRANDE GIOCO DEGLI AMORI INFEDELI”

Presto sentii Mademoiselle Ménard lodare a mammi il mio istinto materno, cosa che la fece trasecolare pensando alle angherie a cui sottoponevo il piccolo Nicola (Nicola Caracciolo, il fratello minore dell’autrice, ndr). «È proprio così» insisteva l’insegnante. «Elle ne demande que de s’occuper des plus petits» e io, invece, aspettavo solo il momento incantato che mi avrebbe permesso di perdermi fra le promesse e le tentazioni di Marie Claire. «Ne parlez pas en anglais» ci ammoniva spesso la nostra maestra. Però le pagine delle riviste femminili erano costellate di parole come flirt, sex appeal, fast, glamour... Vocaboli dal significato nuovo. Rivelatori.
Imparai anche il francesissimo termine maîtresse che non aveva un vero equivalente in italiano, e che mi fece sognare. Lo ritrovavo nelle descrizioni dei letti reali nella storia di Francia, che Mademoiselle Ménard ci insegnava. Il suo significato vero, però, l’avevo trovato in quei giorni in un libro che Carlo (Carlo Caracciolo, il fratello maggiore, ndr ) e io leggevamo a turno chiusi in bagno o nascosti in un sottoscala perché carpito ai nostri genitori, La Dame aux camélias di Dumas. Fu questo forse, per me, il primo libro da adulti. Ho singhiozzato su quelle pagine, non reggendo allo strazio di Marguerite Gautier. La maîtresse di Armand. Una donna perduta. Che diventerà grazie a Verdi la Traviata.
Poco dopo Carlo riuscì a sottrarre un altro romanzo, L’innocente di D’Annunzio. Lo capii a metà, mi piacque meno. Però la parola “amante” aveva lo stesso significato di maîtresse. Per quale mistero della lingua dovevo chiamare Mademoiselle Ménard maîtresse? Una mattina come tante altre, le lezioni si svolgevano nell’aula e io mi occupavo dei piccoli nello studiolo sul retro, già assorta in Marie Claire, quando Milorad, il figlio dell’ambasciatore di Jugoslavia, mi fece recapitare su richiesta della maestra il libro di storia.
Per marcare la pagina che stavano studiando in classe vi aveva infilato, a mo’ di segnalibro, un foglietto stropicciato. Lessi, nella minuta grafia di Milorad: «Lis et déchire! Ton père a une maîtresse!». Non saprei perché, ma la notizia non mi sorprese. Provai però un vivo dispiacere nel venire a conoscenza di fatti della vita di mio padre che avrei preferito non sapere, o meglio che non avvenissero. Bruscamente venni messa al corrente, con l’umiliazione di saperlo da terzi, non solo dell’infedeltà, ma del sotterfugio e dell’inganno che così sovente l’accompagnano. Strappai il foglietto di Milorad in mille minuti pezzettini, fino quasi a farli diventare coriandoli, per poi buttarli dalla finestra. Volevo così esorcizzare la mala novità che mi avevano portato.
All’ora della ricreazione cercai Carlo per consultarmi con lui. Al suono della campana che ci richiamava in classe avevamo già deciso che occorreva saperne di più. Dovevamo controllare la notizia, e a questo fine operare nel più assoluto segreto. Solo Milorad, che ci aveva avvertiti, poteva rimanere dei nostri. Nicola non lo fu, perché considerato troppo piccolo per affrontare i duri fatti della vita. In seguito però si rivelò utilissimo nel raccogliere informazioni. Nella sua innocenza ci riportava ragguagli sui movimenti degli amanti come pezzi di un puzzle che si andava componendo senza conoscere l’immagine completa.
Nemmeno Carlo e io conoscevamo ancora l’immagine completa, ma ogni indicazione carpita o ricevuta avrebbe aggiunto un tassello. Nella nostra rete di accertamenti, di controlli, di spionaggio, passò tutto il mondo diplomatico di quei giorni ad Ankara. Compreso il personale delle ambasciate e quello delle residenze. A poco a poco mi si rivelò per la prima volta la grande, meravigliosa tela cangiante, mutevole, che l’amore, il sesso, ma anche l’intrigo, tessono tra gli uomini. I fili che questi tendevano fra loro incendiavano le immaginazioni, rallegravano gli spiriti, ravvivavano i loro occhi, i loro sorrisi.
Pedinando nostro padre e il suo nuovo flirt scoprimmo in aggiunta ogni sorta di tresche diverse, di maneggi amorosi. La noia che assediava la capitale sull’altopiano favoriva quei diversivi. La signora Massigli ci risultò essere “fast”: più di un giovane addetto si era sentito irretito e lo aveva dimostrato. L’architetto Paolo Caccia Dominioni, a sua volta innamorato di una delle sorelle von Papen, si nascondeva in certi pomeriggi nella baracchetta che gli serviva, a seconda delle occasioni, da abitazione, studio o garçonnière.
Sempre spiando venimmo a sapere che la cameriera Lia non solo trascorreva la notte con l’autista-cameriere bulgaro, ma se ne era innamorata perdutamente. Poiché questi si rivelò “volage”, lei se ne ingelosì fino allo spasimo. E quando apprese che era anche sposato ne rimase così addolorata e sconvolta da decidersi, in un mare di lacrime e disperazione, a ripartire per Firenze. Lia era graziosa, non più giovanissima, di certo meno giovane del suo amante. Aveva grandi seni amorevoli e la pelle finissima, bianca. Sottili caviglie e polsi, poteva a volte anche essere elegante. La vedevo, quando si godeva qualche ora di libertà con l’autista, indossare un foulard o delle calze di seta di mammi. Cosa che mandava regolarmente Emma fuori dai gangheri. «Non è più in sé», la giustificava «è ammalata d’amore». E su questa malattia credevo già di saperla lunga. Avevo undici anni. Carlo tredici. Nicola sette. Papà trentacinque. Mi piaceva stare con lui, non solo durante il gioco del cappello o quando andavamo a cavallo. Aveva sempre qualche cosa d’interessante da raccontare, lo ascoltammo volentieri anche quando decise di leggerci l’Ariosto. Gli volevo bene, accettavo la sua autorità. Ne ero fiera. Mi appariva bello e la sua alta figura elegante. Dicevano che gli somigliavo. Desideravo invece il chiarore nordico di mia madre.
Tardi la notte, mentre mammi leggeva a letto, lui, prima di coricarsi accanto a lei, trascorreva del tempo in un minuscolo studio dal vasto tavolo. Anche molto presto, nelle buie mattine d’inverno, scorgevo la luce della lampada di quella scrivania. Dalla porta socchiusa un raggio obliquo illuminava la stretta scala di cemento, nel buio e nel silenzio del resto della casa.
In quelle stagioni turche, aggiunse alle poesie e alle novelle già apparse, un volume di cinquecento pagine che verrà pubblicato da Guanda, Il passaggio d’Irene . Uscirà, quando saremmo stati a Basilea, con lo pseudonimo di Filippo Urania.
Marella Agnelli, la Repubblica 2/6/2015
IL LIBRO
Il brano che qui pubblichiamo è tratto da La signora Gocà (Adelphi, pagg. 236, euro 12) di Marella Agnelli. Il testo che appare sulle nostre pagine è ambientato durante la permanenza della famiglia Caracciolo in Turchia