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 2015  maggio 31 Domenica calendario

DA PALESTRINA A VERDI E OLTRE ECCO LA NOSTRA CARTA D’IDENTITÀ

Cade a proposito una profezia formulata nel 1833 da Lorenzo Da Ponte, autore di quei sublimi libretti per i capolavori di Mozart (Le Nozze di Figaro, Don Giovanni, Così fan tutte), unanimemente ritenuti vertice insuperato nel non facile connubio fra parola e musica. Da Ponte, che per trent’anni aveva insegnato l’italiano alla migliore società di New York e strenuamente difeso le belle lettere italiche dai pregiudizi anglosassoni, era l’uomo giusto per ribadire il legame fra storia musicale e letteraria, e il «primato» che l’Italia aveva raggiunto nella musica. Una posizione riassunta nel fatto simbolico che fino all’età di Beethoven i tempi dei movimenti musicali erano sempre scritti in italiano (Andante, Allegro, Presto, ecc.). Di più, Da Ponte pensava che l’interesse per l’opera avrebbe eccitato gli ascoltatori allo studio di Dante e Petrarca, di Alfieri e Manzoni. «Preveggo», scriveva l’abate pluri-ottuagenario, «che l’incanto della nostra musica darebbe quasi generalmente un novello impulso all’amore e allo studio delle nostre soavissime lettere». Se oggi la lingua di Dante si studia in Giappone o in Corea del Sud o in Russia, lo dobbiamo al genio di musicisti e librettisti, perché la storia dell’opera è anche storia della miglior letteratura d’Italia.
L’opinione di Da Ponte trovava ragion d’essere nei decenni in cui l’abate Lorenzo fu protagonista della vita artistica europea, fra Vienna e Londra. In tutte le capitali il teatro in musica parlava italiano, ragione per cui sommi geni stranieri come Händel, Gluck, Haydn e Mozart intonarono testi italiani (dimostrando profonda conoscenza della nostra lingua). L’Italia nel XVIII secolo esportava musicisti nelle principali corti: Jommelli ebbe onori a Stoccarda, Porpora a Dresda, Galuppi, Paisiello e Cimarosa a San Pietroburgo, Piccinni a Parigi (dove nacque un culto per l’intermezzo buffo per antonomasia, la Serva Padrona di Pergolesi). La scuola napoletana, padri tutelari Alessandro Scarlatti e Francesco Durante, dominava l’opera seria, spesso su testi del Poeta Cesareo, Pietro Metastasio, il genere buffo - a cui si accostò, fra gli altri, Carlo Goldoni per le deliziose opere del concittadino Galuppi - e la musica religiosa: un esempio fra tanti lo Stabat Mater di Pergolesi. Un «primato» che affondava nell’origine di quello che Da Ponte definiva «l’intrattenimento più nobile che sia stato inventato dal genio umano», l’opera, «alla cui magnificenza» concorsero «poesia, musica, pittura, architettura, danza, costume». Anno di nascita, 1598. Luogo: Firenze, presso la Camerata de’ Bardi (dal nome del mecenate Giovanni de’ Bardi), dove vide luce la nuova creatura: la Dafne di Jacopo Peri.
L’opera diverrà in breve lo spettacolo più ambito e patrocinato dai potenti: regnante il cardinale Mazzarino, l’opera italiana farà il suo ingresso in Francia non solo con i musicisti, ma con geniali architetti, ingegneri, scenografi, come il mago Giacomo Torelli, che stupì tutta Parigi con le sue macchine sceniche. Più avanti, un altro fiorentino, Gian Battista Lulli, divenuto collaboratore di Molière e Quinault, fu il padre fondatore dell’opera francese, e per questo sciovinisticamente ribattezzato Jean-Baptiste Lully. Nel corso del secolo diciassettesimo Venezia vanta il primato di aver aperto il primo teatro pubblico a pagamento, il San Cassiano, nel 1637. In breve sorsero in laguna teatri come funghi, destando la meraviglia dei visitatori, ammaliati nell’ascoltare le opere di Claudio Monteverdi - ancor’oggi si rappresentano le tre superstiti, Orfeo, Incoronazione di Poppea e Ritorno di Ulisse in patria. A Venezia non operò solo il divino cremonese, gran propugnatore del recitar cantando, su cui poggia tutta la storia del teatro in musica, ma anche operisti della levatura di Cavalli e Cesti e, nel secolo successivo, musicisti oggi famosissimi, Albinoni, e soprattutto, Antonio Vivaldi. Il tesoro strumentale del Prete Rosso - i celeberrimi concerti - è scoperta moderna, fra le due guerre mondiali, quando Bernardino Molinari incise per primo le Quattro stagioni e il musicista veneziano Gian Francesco Malipiero avviò presso Ricordi l’imponente opera omnia, smentendo nei fatti la famosa battuta di Stravinskij che sosteneva Vivaldi aver scritto seicento volte lo stesso concerto.
Nel Novecento l’élite culturale che si raccoglieva sotto l’egida rabdomantica di D’Annunzio (Casella, Malipiero, Pizzetti, Respighi), davanti allo strapotere e alla popolarità del melodramma cosiddetto verista, volle riappropriarsi della sua gloriosa storia, valorizzando capitoli fondamentali della musica pre-melodrammatica. Furono riscoperte appieno la straordinaria stagione della polifonia sacra cinquecentesca riassunta nel nome di Palestrina; la raffinatissima stagione del madrigale profano, in cui Monteverdi, Luca Marenzio e il solitario principe di Venosa, Carlo Gesualdo, furono capaci di intonare testi di Petrarca, Tasso, Sannazaro e Guarini; il «concerto grosso» strumentale di cui Arcangelo Corelli fu l’imitatissimo fondatore. L’Italia che aveva dato i natali ai più straordinari liutai della storia (Stradivari, Amati, Guarneri del Gesù) e all’inventore del pianoforte (Bartolomeo Cristofori), fu altrettanto generosa di compositori-virtuosi: Girolamo Frescobaldi (organo), Locatelli, Tartini, Viotti, fino all’inarrivabile fenomeno Paganini (violino), Boccherini e Alfredo Piatti (violoncello), Bottesini (contrabbasso), Domenico Scarlatti, le cui 555 sonate per clavicembalo non sono seconde a nessuno per originalità e inventiva. Nella stagione romantica e oltre il melodramma italiano rappresentò un fenomeno culturale di portata mondiale. Le tre corone, Rossini, Donizetti e Bellini, il dominatore di sessant’anni del secolo diciannovesimo, Giuseppe Verdi, e il definitore novecentesco, Giacomo Puccini, furono (e sono tuttora) le colonne portanti del repertorio di ogni teatro, a ogni latitudine. Grazie anche all’imperio del canto e ai suoi ambasciatori vocali: interpreti leggendari come la Pasta e Rubini, Caruso e Gigli, la Tebaldi e la Callas. E soprattutto alla scuola direttoriale italiana, dominata dalla tempra riformatrice di Arturo Toscanini e dalla fantasia dionisiaca di Victor De Sabata, i quali mostrarono a quali altezze potesse giungere il melodramma se eseguito con le stesse cure elargite ai grandi compositori della tradizione austro-tedesca.
Con buona pace di Don Benedetto Croce e seguaci, nel melodramma italiano non si è solo identificata una nazione in cerca d’unità, ma si è realizzato un fenomeno culturale di portata universale, che ha diffuso a livello popolare la più importante letteratura drammatica. Si pensi all’emblematico rapporto di Verdi con Shakespeare, il Bardo che tutti i romantici veneravano. Il figlio di un oste della bassa fu quello che scrisse le opere più shakespeariane di tutti, il musicista di Macbeth, Otello, Falstaff.